Al Milano film festival la storia della strana amicizia tra il rivoluzionario e il magistrato

Di Chiara Rizzo
20 Settembre 2014
Comandante è un film premiato al Mff, che racconta la vicenda del magistrato di sorveglianza Francesco Maisto e di Felice Esposito, un militante di Lotta continua che sventò il suo omicidio
Felice Esposito, a sinistra con la camicia rossa, e il regista Enrico Maisto, il primo a sinistra sul sedile posteriore

Il Milano film festival 2014 si è chiuso domenica 14 settembre con la premiazione dell’opera prima di un giovane regista milanese (26 anni): il lungometraggio Comandante di Enrico Maisto ha vinto il premio “Aprile”, dopo aver ottenuto riscontri di critica e pubblico nelle giornate del festival. Comandante è una storia dedicata al tema dell’amicizia, al rapporto con il padre, e allo stesso tempo al tema del delitto politico, della pena e del carcere.

“COMANDANTE” ESPOSITO. È la storia del rapporto tra il padre del regista, il magistrato Francesco Maisto, e Felice Esposito, un meccanico ex militante di Lotta Continua, e oggi ancora convinto militante di ciò che resta di Rifondazione comunista. «Esposito per me – ha detto il regista – è sempre stato un personaggio da romanzo, sembrava il perfetto protagonista di un’opera di Garcia Marquez, è questo che avevo sempre trovato attraente di lui. Ricordo ancora tante domeniche, quando ero piccolo, in cui mi veniva a prendere a bordo del suo carrattrezzi e mi portava in giro, con me che indossavo una salopette di jeans per imitare la sua da operaio. Ricordo il sapore ferroso della sua barba, le sue mani. Ho iniziato a girare col desiderio di riprendere con la telecamera quei profumi, quei sapori, quel personaggio. Per il mio primo film inizialmente seguivo dunque quest’idea di un film solo su Felice, sinché però non mi sono imbattuto in una storia completamente diversa, e ho dovuto per forza di cose raccontarla».

TENTATO OMICIDIO. Negli anni Settanta Esposito, come ricorda lui stesso alla telecamera, aderì alla visione del comunismo rivoluzionario di Lotta Continua. Nel tempo libero, insieme alla moglie Carmela, era solito frequentare un’osteria della periferia milanese, il Molino doppio, che oggi non esiste più. In questo locale, attorno alla tavola, «si incrociavano mondi diversi. C’erano poliziotti che si fingevano terroristi, c’erano terroristi che cercavano di non farsi riconoscere, c’erano operai e c’era persino qualche magistrato» spiega Esposito, che tra i giudici diventa amico di Francesco Maisto, all’epoca giudice di sorveglianza nel carcere di San Vittore. «Lui – spiega nel film Esposito – era per quelli di Lotta continua l’emblema del sistema da abbattere. All’epoca a San Vittore c’erano 1.500 detenuti, e la maggior parte erano compagni. Ne arrestavano 10 o 15 al giorno questa era la media».
Ai “compagni” di Esposito poco importava come esattamente svolgesse il suo lavoro Maisto: era un esponente di un sistema da abbattere con la morte. «Eravamo convinti che l’unico modo per cambiare le cose, a quel punto fosse imbracciare le armi. Però no, io ad uccidere un uomo non sarei mai arrivato» dice Esposito. È così che ad un certo punto il meccanico di Lotta apprese dai compagni «per caso, che il loro prossimo obiettivo era Maisto. Allora immediatamente li fermai. “Quello non si tocca”. Fortunatamente mi ascoltarono. Ed è così che siamo ancora qua e ogni tanto andiamo a mangiare insieme».

IL MAGISTRATO. Comandante è l’indagine umana su ciò che rappresentarono gli anni di piombo, tra illusione di rivoluzione armata e omicidi. «Felice aderiva all’idea della rivoluzione – racconta nella pellicola il giudice Francesco Maisto, oggi presidente del tribunale di sorveglianza di Bologna – ma non ha mai aderito a quella dell’omicidio. Non abbiamo mai parlato tra di noi di quello che è successo quando mi ha salvato la vita, è qualcosa che è rimasto come un non detto tra di noi. Ma è possibile che abbiano voluto davvero uccidermi. Forse ero un bersaglio più facile di altri, forse semplicemente mi vedevano come parte del sistema Stato».
Maisto è stato uno degli estensori della legge Gozzini, che ha introdotto nel 1986 misure come la detenzione domiciliare, l’affidamento ai servizi sociali o la possibilità per i detenuti di lavorare all’esterno del carcere, attuando per la prima volta il concetto di “umanità della pena” contenuto nella costituzione. Confida nel film che «negli anni in cui ero magistrato di sorveglianza a San Vittore ero considerato un corpo estraneo, perché volevo che si trattassero in modo umano anche i detenuti. Ma ho scelto questo percorso perché anche allora, fin dall’inizio, in qualche modo ero convinto fosse l’ambito che potevo “sfondare”. Non mi è mai piaciuta la visione giustizialista del magistrato, di colui che incarna la legge». È stato proprio il giudice a ordinare la chiusura del reparto di sicurezza per i detenuti che si trovava nei sotterranei di San Vittore, con celle senza acqua corrente, fogne o riscaldamenti. «Ho sempre creduto che il mio ruolo fosse di valutare in base alle leggi la situazione della persona che mi trovavo davanti» racconta Maisto padre.

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