Sarà per un certo spirito da bastian contrari o per la matematica certezza che basta pensarla all’opposto della Gazzetta dello sport o di Marco Travaglio per imbroccarla giusta, ma a noi tipi come Claudio Lotito e Carlo Tavecchio stanno simpatici. Sarà perché dispiacciono alla gente che piace o perché hanno delle indimenticabili facce da schiaffi, ma a noi quei due risultano più affidabili di tanti chiacchieroni nostrani.
Nessuno dei nostri eroi gode di buona stampa, anzi. Quando è stato eletto presidente della Figc, la Gazzetta dello sport ha titolato: “Stravecchio”. Come a dire che il mondo del calcio aveva scelto di affidarsi al dirigente che rappresentava tutto l’antico e decadente sistema, che non aveva avuto il coraggio di cambiare, che in epoca di svolte renziane s’era acquattato nell’angolo buio della cambusa, anziché sfidare i venti in punta di prua. Lui, poi, c’aveva messo pure del suo con l’infausta battuta sugli Opti Pobà che «mangiano le banane» e allora era logico che tutti quelli che la pensano sempre giusta si sarebbero posizionati sull’altro lato della strada. Perché, in effetti, quando parla, Tavecchio s’ingarbuglia, pugna con la sintassi e, se va bene, non si capisce cosa intenda. Se va male, dice la cosa sbagliata nel momento sbagliato.
La figura, poi, non aiuta. Bassotto, tarchiato, pelato. C’ha pure 71 anni, che oggi in Italia è praticamente una colpa, ha fatto la gavetta alla vecchia maniera, ha studiato ragioneria. È stato sindaco di Ponte Lambro, mica di Firenze o Roma. Ha fatto il presidente della Pontelambratese e per quattordici anni quello della Lega nazionale dilettanti. S’è costruito centimetro per centimetro, stretta di mano per stretta di mano, secondo una prassi che – chissà perché – oggi in Italia è schifata. Eppure Tavecchio ha stravinto nelle votazioni contro Gabriele Albertini: ex campione, bel ragazzo, faccia da chierichetto. Albertini ha i capelli, è alto, non ha il doppio mento bovino. Quando parla non dice nulla, però in tv viene bene.
Sta di fatto che, quando è arrivato, Tavecchio ci ha messo tre giorni a mettere le mani in pasta e portare sulla panchina della Nazionale Antonio Conte, facendosi pagare la differenza dell’ingaggio dallo sponsor. Mica scemo. Ha preso il miglior tecnico su piazza allo stesso stipendio che la federazione passava a Cesare Prandelli. Sarà pure un uomo «della Prima Repubblica», come lo chiamerebbe spregiativamente Renzi, ma quei geni della Seconda non ci avevano mai pensato.
Tavecchio non lo vedremo mai sulla copertina di Vanity fair, né negli spot Fifa e Uefa che lanciano hashtag contro il razzismo in campo. Però, se non lo facciamo parlare, ma lo lasciamo fare, ne vedremo delle belle. Intanto ha già fatto capire che quella grande ipocrisia delle squalifiche per discriminazione territoriale è, appunto, un’ipocrisia. Lo sapevano tutti, ma nessuno osava dirlo. Ha promesso di concentrarsi sui centri federali dove cercherà di far crescere il calcio italiano e taglierà i costi eccessivi. Fa il fuoco con la legna che ha. Niente fuochi artificiali, niente tricche tracche, tanto lavoro e un occhio alla saccoccia dei quattrini. Vuoi mettere?
Ma continuerà a piacere solo a noi, non a quelli come Gigi Garanzini che l’hanno accoppiato all’altro impresentabile del calcio italiano, Claudio Lotito, per dire che è roba vecchia, passata, in bianco e nero. Tavecchio e Lotito sono come i fratelli De Rege, due buffoni da sketch anni Cinquanta, ha scritto Garanzini sulla Stampa. Perché anche Lotito non è uno da rivista glamour. Non ha niente di patinato, Lotito. Ha fatto i soldi con imprese di pulizia e vigilanza, lui. Quando parla è un fantastico guazzabuglio ipotattico infarcito di citazioni latine, motti vernacolari, iperboli classicheggianti.
Ma qualunque cosa intenda quando s’esprime, resta il fatto che Lotito è un manager coi fiocchi, che ha salvato la Lazio dal baratro, tiene in ordine i bilanci, vince e s’intesta le partite politiche che gioca. Non è un tipo tutto hashtag e distintivo, come i suoi scontati detrattori. E lui, come Tavecchio, è un altro che una mano sul forziere la tiene sempre: «Non sono un tirchio. Ma non lascio avanzi nel piatto».
E poi, ad ogni nuova scazzottata sulle curve, mentre gli altri andavano in tv a chiacchierare di facinorosi negli stadi o vergavano pensierose analisi sociologiche sulle prime pagine dei giornali, lui tagliava i fondi agli ultrà. Così adesso gira con la scorta. Ma questo, quelli che fanno gli splendidi sui giornali o su Twitter, mica se lo ricordano spesso.