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Maradona e il fisco. Diego ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione è ormai prescritta

Il Pibe de Oro era in Argentina nel '94 e non sapeva dell'indagine. Per questo non poté fare ricorso con Alemao e Careca, che invece furono assolti.

Redazione
17/02/2014 - 17:07
Sport
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Non voglio fare la fine di Sophia Loren. È la paura di Diego Armando Maradona confessata oggi in una lettera al Corriere della Sera, dove l’ex numero 10 del Napoli parla dei suoi problemi con le tasse e scongiura il fisco di non trattarlo come fece con l’attrice romana, che finì dietro le sbarre per 17 giorni e, solo dopo 40 anni, fu totalmente riabilitata. Ma di una sanatoria “salva Maradona”, l’ex calciatore non ne vuole sentire parlare, ribadendo di essere del tutto estraneo all’accusa di non aver versato 39 milioni di euro a Equitalia: «Sono innocente, non ho mai evaso una lira».

ACCUSE FRUTTO DI ERRORI FORMALI. Si sa, Maradona è sempre sopra le righe. Qualche mese fa, ospite da Fabio Fazio, fece il gesto dell’ombrello al fisco italiano. Grande indignazione, ma qualche buona ragione Maradona ce l’ha. Le accuse che pendono sul suo capo sono frutto di errori formali: negli anni Novanta non gli fu notificata l’apertura delle indagini fiscali e, per questo, l’argentino non poté mai fare ricorso in tempo. Tra l’altro, la nostra giustizia ha riconosciuto l’innocenza per alcuni suoi compagni di squadra come Alemao e Careca, anch’essi implicati nelle medesime vicende, ma per Diego no. Perché?

NEL ’94 ERA IN ARGENTINA. A ricostruire il caso ci ha pensato Franco Bechis lo scorso ottobre, in un articolo su Libero. Ai tre giocatori veniva contestato il mancato versamento dell’Irpef per un contratto che li legava al Napoli: attraverso società terze, i giocatori ricevevano dalla società dei corrispettivi per i diritti d’immagine, come avviene tutt’ora per tanti sportivi. Quei soldi furoro considerati sospetti dall’Agenzia delle Entrate che li classificò come uno stipendio extra, e dunque sottoponibile a verifiche. Se però ai due brasiliani e alla dirigenza di Ferlaino arrivarono, nel 1994, la notifica del fisco, a Maradona non fu recapitato alcun avviso, poiché ormai era già tornato in Argentina. E così, non sapendo di alcuna indagine, non poté fare ricorso.

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I RICORSI DI ALEMAO E CARECA. Alemao e Careca poterono invece ricorrere contro le accuse di evasione. E se il primo grado li confermò colpevoli, in secondo e terzo vennero riconosciute le loro ragioni: la giustizia tributaria appurò che i diritti d’immagine che ricevevano dalle società intermediarie non erano stipendi aggiuntivi versati dal Napoli. Pure alla società partenopea venne notificata la sentenza favorevole, di cui però non poté godere poiché all’epoca gli Azzurri erano vicini al fallimento economico: non volendo allungare i tempi, preferirono la strada del condono fiscale e pagarono le tasse in misura ridotta. «In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco andò avanti», scriveva Bechis.

NEL 2001 ERA TROPPO TARDI. La giustizia tributaria quindi ha dato ragione a Careca e Alemao. Non a Maradona, sebbene l’accusa fosse la medesima: il Pibe, all’oscuro di tutto, non aveva fatto ricorso. C’ha provato nel 2001, ma ormai era tardi, poiché la possibilità di ricorrere e contestare il fisco era ormai caduta in prescrizione. E così, eccoci alla richiesta di Equitalia, pari a 39 milioni di euro: 11,4 sono le mancate tasse versate dall’85 al ’90, i restanti 28 sono l’aggiunta di more e interessi. Una cifra spropositata, ancor più se c’è stato un tentativo di saldarla: «Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione è ormai prescritta. Cose da Azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia».

Tags: argentinabechisequitaliafazioferlainofiscoirpefmaradonaNapolipibe de oro
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