
Mannaggia il pavé

Articolo tratto dal numero di ottobre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Ho canticchiato molte volte «Milano in macchina una sera che piove», sotto la pioggia che qui ha un altro colore/sapore, cercando di riprodurre la voce arrochita e sensuale di Loredana Bertè, ma non avrei mai pensato di canticchiare in una posizione, all’inizio piuttosto precaria, poi sempre più spigliata (la posizione, la voce no) «Milano in monopattino un giorno di sole». Eppure l’ho fatto. Ho cantato e sono andato in monopattino per le trafficate strade della metropoli. Perché la gente va meno al ristorante, lavora in smart working ma l’auto, ovviamente, non la molla. E questo mi ha fatto pensare ai balordi della redazione di Tempi che mi hanno proposto il reportage “Milano in monopattino” proprio ora che siamo ritornati ai livelli di circolazione pre-Covid. Voi che non siete di Milano forse non lo sapete, ma qui le auto aumentano in modo esponenziale quando aprono le scuole: i pupi vanno accompagnati sulla porta dell’aula. Era dall’inizio del lockdown che non vedevo Milano così intasata.
I balordi di Tempi credevano di vedermi stramazzare, coltivavano la speranza che mi sarei schiantato contro un ippocastano, un bus normale e/o elettrico, un tram, un Suv, una Smart, un altro monopattino, oppure che sarei finito dritto in una buca. Non sono tante come a Roma ma ci sono. Beh, confesso: il timore ce l’avevo pure io, però ho accettato la sfida.
A spinta neanche per idea
Non ho mai utilizzato la BikeMi, cioè il servizio ufficiale di noleggio biciclette di Peppiniello Sala e del Comune di Milano, né gli altri che, a differenza di quello official con i suoi parcheggi, ti permettono di lasciare la bici dove vuoi. Mia moglie è iscritta dalla prima ora. Mia moglie ha poteri telepatici. Vi ricordate il film Being John Malkovich? Come il tizio che entrava nella capa del famoso attore americano, lei è entrata nella testa di Peppiniello e lo ha condizionato al punto che hanno attrezzato un parcheggio della BikeMi davanti a casa nostra.
Ma sto divagando, anche perché sto leggendo l’autobiografia di Woody Allen e lui fa continuamente così, divaga. Io adoro Woody.
Per andare in monopattino, una persona a cui è sfuggito momentaneamente il raziocinio e decide di accondiscendere alle richieste di una ciurma di balordi, per prima cosa deve procurarsi il mezzo. Non so se i balordi si siano fatti influenzare da ViviMilano del Corsera, non credo che leggano giornali, ma combinazione, la copertina di quello in edicola quando ho ricevuto la loro proposta è proprio dedicata ai monopattini. C’è il cuoco-star spilungone Andrea Berton che sostiene «non ne posso più fare a meno». Ma per favore, fammi un risotto piuttosto. Però le pagine dedicate ai monopattini mi sono tornate utili.
Dovete sapere che parliamo di monopattini elettrici, anche se molti di quelli che girano sono a spinta, come quelli per i ragazzini che si usavano una volta. Questi li usano i salutisti, gli atletici, i maniaci. Non fanno per me. Forse c’è una ragione freudiana nella mia idiosincrasia al monopattino a spinta. Il pensiero fa emergere un ricordo doloroso. Nel 2000 sono tornato dall’Olimpiade di Sydney carico di gadget per me e per la famiglia. Tra questi, due splendidi monopattini grigio metallizzato. Avevo costretto un mio collega a portarne uno. Mia moglie, dopo una settimana, li ha lasciati sul pianerottolo di casa e il giorno dopo ne abbiamo trovati quattro, se capite cosa intendo. La parola monopattino, oltre al timore e all’instabilità, evoca la sindrome da mancanza.
Il casco con le fiamme rosate
Comunque cerco il monopattino per la bisogna. Scopro che, per quelli a noleggio, di quelli usa e parcheggia dove vuoi – insomma, dovresti sistemarli con un po’ di rispetto, dove ci sono i parcheggi appositi o dove ci sono quelli delle bici –, ci sono ben otto proposte in città. Dopo un’attenta valutazione – mi sembrano tutti uguali – seleziono e scarico due app. Alla fine mi oriento su Wind, che non credo sia parente del gestore telefonico, ma è quella con i monopattini gialli. Più o meno i prezzi sono gli stessi, ma Wind è gialla, appunto, e il giallo è un colore che risalta. Così, penso astutamente, con la mia giacca a vento da mezza stagione Burberry dello stesso colore, faccio un ton sur ton bello vistoso e quelli motorizzati mi dovrebbero vedere meglio e quindi non travolgermi. Scaricata l’app e seguito tutto l’iter burocratico – se ce l’ho fatta io potete farcela anche voi –, sono pronto.
Cerco il monopattino più vicino a casa mia. Sta proprio qui davanti. Quando sblocchi l’aggeggio tra i suggerimenti c’è quello di usare un casco. Naturalmente, non incontrerò nessuno in giro, a parte me, che lo utilizzi. Nello zainetto ho messo il casco da bicicletta che ho regalato a mia moglie per il suo compleanno, un anno fa. Il casco è finito nell’apposito contenitore “regali di mio marito che ho schifato”. È un po’ frou-frou, con delle fiamme rosate o qualcosa del genere. Ma non devo andare alla prima della Scala, né imbarcare una bella topa (in due non si potrebbe ma quanti ne becco), solo proteggermi la testa.
Sblocco quindi l’aggeggio con la videocamera del cellulare e sono pronto. L’avvio è all’antica: ti devi dare una spinta, come se non fosse elettrico, e poi accelerare. Il monopattino mi scappa via, parte da solo mentre io rimango indietro. Decido di fare una prova nel parcheggio di casa. Vado avanti e indietro due o tre volte e mi pare che a) riesco ad andare senza problemi e b) l’aggeggio regge il mio peso. Ci siamo, esco dal cancello e mi lancio all’avventura. Accelero. Per dare un senso al viaggio, almeno il primo, stabilisco un punto di arrivo. Una farmacia dove, da un po’ di tempo, vado a lumare una bella farmacista. La ragione, sempre freudiana, è che, anche se svolazzo non sono ancora convinto del tutto.
Percorro via Tertulliano, poi svolto in viale Umbria, dove viaggio nella corsia della 92. All’inizio sono un po’ timoroso, poi ci prendo gusto. La sensazione è bellissima, di libertà totale. Non c’è la costrizione di una macchina, non c’è la necessità di pedalare come in bicicletta. Un venticello fresco d’inizio autunno mi viene incontro e i colori di Milano sono dolci. Forse la domenica, con meno traffico, le sensazioni sarebbero ancora più straordinarie di quelle che già provo. Le auto sembrano rispettose e attente. Vado alla farmacia, metto in pausa, così un altro monopattinista non me lo prende (occhio che in pausa vale come se vai e quindi il tassametro scorre). Faccio viale Umbria su e giù, mi infilo in via Lattuada e la percorro fino in fondo, quando svolto a destra in viale Monte Nero per la prova pavé.
L’esperienza peggiore del mondo
Il pavé è quella cosa che sembra esaltante se guardi la Parigi-Roubaix in tv, o commovente se leggi il Manzoni, il Porta o il Grossi, ma se ce l’hai sotto il culo con un mezzo che non sia un’auto con delle buone sospensioni ti sfonda il cervello, se riesci a non farti sfondare altro. In monopattino il pavé è peggio di ogni altra esperienza, perfino della moto. Così, la mia intenzione di arrivare fino a piazza Cinque giornate per poi puntare verso il centro, viene abbandonata. Per lo meno per di qua. Svolto in via Pier Lombardo e il ritorno sull’asfalto mi consegna a un’altra vita.
In piazza Cinque giornate mi tocca un altro pezzettino di pavé, ma attraversato questo, sono in corso di Porta Vittoria. Davanti a San Pietro in Gessate ricomincia il pavé, mannaggia dovevo farmi una piantina. Mi fermo e vado a mano fino all’incrocio con via Francesco Sforza, spingendo il monopattino. Mi dispiace, ma il pavé non lo reggo. Voglio arrivare al Duomo e ci arrivo da via Larga, su fino a piazza Diaz.
Una tipa, con l’auto ferma al semaforo di via Larga, guarda il mio casco con le fiamme rosate o forse il mio ton sur ton giallo o forse la mia stazza poco appropriata a questo aggeggio apparentemente da cuochi (o altra star di questi tempi) fighetti. Forse pensa che sono troppo anziano per andare in monopattino, io invece passo da Loredana Bertè a Franco Battiato: «I desideri non invecchiano quasi mai con l’età».
Arrivo in Duomo da piazza Diaz, mi fermo un attimo perché non so se è consentito o no, poi vedo un paio di compari che sfrecciano e vado pure io. Svolazzare in piazza Duomo disegnando qualche ghirigoro non ha prezzo. Aumentando la padronanza del mezzo, aumenta anche il raggio dello sguardo, l’abbraccio alla bellezza della città, ai suoi scorci. In centro il problema, però, è quello del maledetto pavé. Devo trovare strade alternative ma non è facile. Peccato. Desisto e me ne torno verso casa facendo un giro largo. Ormai ci ho preso gusto e accelero. Ho letto che la velocità in alcune zone non può superare i 6 chilometri all’ora, ma a me a 2,8, pare già di volare. Non supero i 3. Percorro corso Venezia, un pezzo di Buenos Aires e svolto in viale Regina Giovanna, dando uno sguardo a una delle mie prime case milanesi. Infine prendo a destra per via Castel Morrone e giù fino a a corso Lodi.
Il trolley incorporato
Questo è il percorso milanese che preferisco anche con altri mezzi di trasporto perché si passa sotto un continuo tetto di rami e di foglie. E ora, padrone ormai del mio monopattino, con un occhio attento ad avvallamenti e tombini, mi godo questo scorcio parigino di Milano. Bene. Anzi male, perché, dopo quello che chatta in auto, quello che chatta in motorino, quello che chatta in bicicletta, becco pure quello che chatta in monopattino. Vorrei speronarlo. Invece me ne vado a casa, posteggio appena accanto al parcheggio della BikeMi costruito apposta da Peppiniello per mia moglie. Fine. Vado al supermercato. Venti minuti e quando torno il mio monopattino è sparito. Lo so, non era il “mio”. Ma ormai mi ero affezionato.
Sto pensando di comprarmene uno. I migliori costano tra i 500 e i 600 euro. Spigolando ne trovo anche uno con il trolley incorporato. Te lo faranno imbarcare sull’aereo come bagaglio a mano? Con questa domanda che mi frulla comunico a mia moglie l’intenzione di acquistare un monopattino. Quando mi colpisce con un oggetto contundente sul casco – per fortuna ho dimenticato di toglierlo – ho un’illuminazione: i due monopattini australiani non ce li hanno rubati.
Foto Ansa
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