La sincerità non ha prezzo. E Francesco Merlo, editorialista del Corriere della Sera, si è preso il bel rischio di dire quello che sentiva dentro, all’indomani delle tre giornate di violenza di Genova. Anche solo per tradizionale “mammismo latino” (su cui ironizzava l’Ernest Hemingway del “Per chi suona la campana”, gli italiani in trincea, quando vengono feriti gridano subito: “mamma!”), c’era scappato il morto e, dunque, non si sarebbe potuto far altro che recitare la liturgia delle vittime.
Con il suo “Colpevoli indulgenze” (CorSera, 22 luglio) invece, Merlo, un mese fa, non si è curato del corpo del morto ancora caldo, ma ha subito chiamato in causa quelli che in modo più o meno obliquo ha ritenuto corresponsabili della fine di un giovane “marinaio disorientato che cercava il suo naufragio”, e della tragedia del vivo, il carabiniere ventenne, non simbolo di “fascismo” e di “notti cilene”, ma “ altro naufrago, risucchiato nel gorgo del primo”. E’ passato un mese da quei giorni di fuoco e qualcuno si attende e, chissà mai, si augura il ritorno della stagione di “piombo”.
Francesco, nel tuo articolo accusavi la sinistra di aver scambiato la verità, l’anima della gente, per il tornaconto politico…
Sì, anche se non sempre sulla base di un tornaconto così cinico. C’è una concezione, un tic, una maniera di vedere la politica che è vecchia, arcaica e quindi anche questa tragedia è stata, purtroppo, vista così. Per questo succede che anziché rifondare si seppellisce. Capisco che certe situazioni sono complesse, perché oltre al fatto umano c’era e rimane una partita politica: quella della supremazia nella sinistra.
Fino a ieri erano tagliati fuori, adesso, improvvisamente, dopo Genova i leader della sinistra italiana potrebbero diventare – o rischiano di diventare – Agnoletto e Bertinotti. Non è poco, né per chi ha sperato in una grande sinistra riformista, né per chi dall’altra parte era stato messo in un angolo e da tutti accusato di essere il passato.
Ciò che colpisce e che rende attuale quel tuo intervento è che capita raramente di sentire nei media parole sincere. Dire “coraggio” forse è un po’ retorico. Ma come succede, per un giornalista esperto e navigato come te, di andare “dove ti porta il cuore”?
Punto primo: questo pezzo è un editoriale del Corriere, quindi un articolo che porta due firme, se non di più: la mia e quella del direttore del Corriere, o se vuoi quella del direttore e la mia. Secondo: tutti quanti siamo più o meno della stessa generazione e siamo tutti figli di un mondo che ha già visto queste cose, per cui tutti quanti, come credo tutti gli italiani della nostra generazione, si sono un po’ spaventati, un po’ irritati, nel rivedere in campo tutti i pericoli di un mondo che sembrava veramente sepolto.
Quelle cose terribili, quella scia di sangue degli anni ’70, chi non ha avuto un amico coinvolto nell’uno o nell’altro campo? Quell’editoriale è nato da questo sentimento forte, dall’angoscia di rivivere un momento tragico del personale e colletivo passato. E’ come se avessi voluto ricordare a me stesso e agli amici: attenti, stiamo tornando a scherzare con delle cose che sappiamo già dove portano, che abbiamo già visto e che hanno un esito terribile…
Dalle colonne del Corriere della Sera…
Sì, noi siamo un giornale non schierato e questo tutti ce lo rimproverano. Però ci sono delle cose sulle quali a volte anche un giornale equilibrato, che non ama i toni accesi, si deve pronunciare con forza. In questo caso lo ha fatto attraverso me, nel massimo accordo…
Un accordo, anche musicale, che ricorda il Corriere all’epoca in cui ospitava le provocazioni di Pier Paolo Pasolini…
Pasolini è una grande della storia della cultura italiana in tutti i sensi, aveva una concezione delle cose molto drammatiche. Ma io, rispetto a lui, normalmente mi sento diecimila metri più in basso…
Non è che sei più in basso, è che tutti ti conoscevamo per quella tua prosa arguta e irriverente, che solitamente si nutre di sapiente gusto dell’ironia e del disincanto. Ma questa volta no, hai superato la soglia della decenza aristocratica e ti sei buttato in una denuncia dura, sanguigna, categorica…
Ci sono delle cose sulle quali non si può scherzare. Specie se le hai già vissute, come le abbiamo vissute noi negli anni’70…
Anche Scajola ti ha citato…
Qui, devo dirti la verità, non è l’appartenenza che mi fa parlare. E poi tu sai che io non ho neanche un’appartenenza. So che il ministro degli Interni ha citato il mio editoriale nel discorso alla Camera.
La cosa non mi ha procurato né piacere, né dispiacere, perché essendo io deideologizzato, l’articolo nasce immediatamente e semplicemente da quella situazione di Genova dove, onestamente, abbiamo rivisto ancora una volta violenza e ipocrisia che credevamo esserci lasciati alle spalle una volta per tutte.
D’altronde anche Giuliano Amato ha sentito il bisogno di dire che bisogna evitare di tornare a parlare di compagni che sbagliano. Mi spiace che Bertinotti, preso da un automatismo verbale e, forse, dal desiderio di colpire politicamente questo e quello non ha voluto intendere la sostanza del mio intervento.
E qual è la sostanza di quel tuo intervento?
Ho pensato a mio figlio, ai miei parenti, i miei nipoti. Io ho dei figli piccoli e quindi sono fuori da questa cosa. Però uno dei miei nipoti era a Genova. E sono ragazzi a cui non puoi non voler bene.
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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Emanuele Boffi