La signora Carole Horlock, 55 anni, di Colchester nell’Essex, una vita tra il Regno Unito e la sua fattoria a Bordeaux, è conosciuta come la madre surrogata più prolifica del pianeta («l’utero migliore del mondo», l’hanno ribattezzata i giornali) e ne va fierissima. Prima di andare in “pensione” ha partorito 13 bambini, è entrata nel Guinnes dei Primati ed è stata la voce narrante dello storytelling sull’utero in affitto “solidale” più ascoltata dai tabloid inglesi: «Sono immensamente orgogliosa della mia carriera di madre surrogata e di avere 13 bambini amati dalle loro famiglie», «la maternità surrogata ha portato a me e alle famiglie che ho aiutato una gioia incommensurabile», «la maternità surrogata è il dono supremo che una donna può fare a un’altra», ha raccontato per anni in tv e sui giornali.
Lo storytelling della surrogata
«Non mi preoccupa il fatto che la mia progenie venga allevata da qualcun altro. La biologia è la parte facile; maternità è allattare, nutrire, crescere un bambino», ha assicurato la donna ad ogni intervista rilasciata in principio di ogni nuova gravidanza su commissione («lo faccio per amore», è il mantra di Horlock e delle surrogate solidali ricompensate con rimborsi spese invece di una tariffa fissa come nella surrogata commerciale) promettendo che prima o poi si sarebbe fermata.
Come quella volta che perse un bambino a 50 anni, dopo una fecondazione in vitro in Grecia: «Purtroppo, l’ovulo della donatrice era “rovinato” e la gravidanza è fallita non a causa della mia età, ma perché l’embrione non era vitale. Non ho legato con quella coppia, mi sentivo per loro solo una macchina per fare i bambini». Nonostante questo, e nonostante la ferma contrarietà delle sue due figlie biologiche, ormai adulte e preoccupate della salute della loro madre, la donna si rifiutò di sospendere “le attività”; chiese anzi un permesso speciale a un comitato etico per continuare a fare la surrogata anche dopo i 52 anni suonati: «Userò gli ovuli e lo sperma della coppia (spesso aveva fornito anche i propri ovociti ai committenti, ndr), non c’è assolutamente alcun motivo per cui la gravidanza non sia un successo», «desidero disperatamente portare un altro bambino».
Il bambino “numero 9”
Oggi la signora Horlock torna a parlare a tv e giornali: questa volta però non lo fa per annunciare la nascita di altri due o tre gemelli, né l’inizio di una nuova gravidanza, ma per implorare un incontro col bambino “numero 9” che compirà 18 anni a giugno. Un bambino surrogato speciale, «ho pensato più a lui che ha tutti gli altri, mi si spezzerebbe il cuore se non volesse conoscere me e Paul». Perché a differenza degli altri il “bambino numero 9”, partorito nel 2004, non condivide una sola cellula con la coppia di committenti che si fanno chiamare mamma e papà: il bambino numero 9 è di Carole e di suo marito.
Holrock racconta di averlo dato via inconsapevolmente nel 2004: si era “autoinseminata” nove mesi prima con il seme di un uomo di affari che insieme alla moglie inglese cercava di avere un bambino. E ha dato per scontato, una volta incinta, che quel figlio in pancia fosse loro. E invece. «Questo ragazzino è stato creato inavvertitamente con un atto d’amore tra me e il mio partner. Non lo sapevamo quando lo abbiamo consegnato»: usa questa terminologia Holrock per giustificare l’evento più naturale del mondo, due persone che con un atto sessuale – e non con siringhe, guanti, provette – concepiscono un bambino. Così naturale che dopo aver fatto di tutto per snaturarlo ed evitarlo – «portavo i figli degli altri», «non avevamo figli nostri, ne avevamo da precedenti relazioni», «abbiamo preso precauzioni», «non ci siamo astenuti dal sesso (come suggerito alle surrogate, ndr) ma abbiamo usato contraccettivi» – Holrock non ha assolutamente pensato che quel figlio fosse davvero suo.
«Quel figlio surrogato era mio»
Era stata una gravidanza da manuale, i “genitori intenzionali” avevano partecipato con gioia a tutte le ecografie, Holrock aveva preso tutte «le distanze psicologiche» del caso, certa di avere imparato a non «investire emotivamente nella gravidanza, altrimenti ti si spezza il cuore alla consegna del bambino». A sei settimane dal parto stava già pensando alla prossima coppia da aiutare quando l’uomo d’affari, furioso, chiamò l’agenzia: quel figlio commissionato non era suo. Un secondo test del Dna aveva in seguito confermato: il bambino era della mamma surrogata e di suo marito Paul. «Cosa avremmo dovuto fare? Era una situazione terribile per tutti. “Lo vogliono ancora?”, chiedevo continuamente all’agenzia, “vogliono restituirlo?”. Dopo tutto lo avevano amato fin dal concepimento e lo avevano cresciuto loro appena nato, mentre io avevo solo fornito l’utero e mi ero allontanata mentalmente da lui per tutti i nove mesi della gravidanza». Alla fine, «fu Paul a prendere la decisione. Disse: “Se non lo vogliono, lo tireremo su noi”. Ma se lo amavano ancora e volevano tenerlo, lo avremmo lasciato stare con loro». E così fu.
Ma la vita non è uno spot sulla surrogata. Dopo aver sbrigato le pratiche dell’adozione, la coppia iniziò a defilarsi. Qualche anno di comunicazioni postali finché i rapporti si interruppero completamente. E Holrock iniziò a sentire la mancanza di quelle lettere e delle notizie di suo figlio, a farsi mille domande su cosa stessa facendo, come stesse crescendo, a spiare i social della mamma adottiva per vedere le foto del suo ragazzo.
«Ma anche gli altri erano figli miei»
«Sono rimasta in contatto con quasi tutti i miei bambini surrogati, ma non con lui. Con il passare degli anni ho iniziato a pensare a lui ogni giorno», racconta la donna, spiegando di aver lasciato una lettera per suo figlio al Registro dei contatti per l’adozione nella speranza che, una volta maggiorenne, il ragazzo decidesse di conoscere sua madre e suo padre: «Paul ha sviluppato un problema cardiaco e mi si spezzerebbe il cuore se non si incontrassero mai». Non è la prima volta che cade il velo, si guasta lo zucchero, si scioglie il cotone idrofilo con cui è stata infiocchettata, addolcita, ovattata la farsa criminale dell’utero in affitto. La signora Carole Horlock non si dice pentita ma non si presenta più come «il migliore utero del mondo» in televisione. Non parla più di doni e gioia incommensurabile. Carole Horlock ha un nuovo, disperato, desiderio: conoscere suo figlio.
Alla gente che le chiede “come hai potuto dare via questo bambino che era tuo” non propina più lo storytelling sulla distanza emotiva in utero ma la cruda verità: anche gli altri «bambini surrogati che ho dato via sono stati miei biologicamente». La differenza, spiega, è che questo bambino è figlio «anche di Paul». Difficile davanti a un padre continuare a concepirsi solo come un utero, concepire un figlio come un dono da consegnare chiavi in mano, concepire la biologia come una faccenda del tutto superabile dalle intenzioni dell’amore.