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Macché banlieue. Quelli che al Corvetto «costruiscono relazioni»

Di Ubaldo Casotto
06 Gennaio 2025
Nel «quartiere problematico» di Milano dove è scoppiata la rivolta per la morte di Ramy Elgaml ci sono «punti vivi e generativi» che permettono a tutti «di essere una comunità». Reportage
Corteo per Ramy Elgaml, giovane egiziano rimasto ucciso nella notte tra il 23 e il 24 novembre scorsi durante un inseguimento con i carabinieri nel quartiere Corvetto, Milano (foto Ansa)
Corteo per Ramy Elgaml, giovane egiziano rimasto ucciso nella notte tra il 23 e il 24 novembre scorsi durante un inseguimento con i carabinieri nel quartiere Corvetto, Milano (foto Ansa)

Corvetto, banlieue. L’accostamento etimologicamente non regge: bando (ban) di una lega (lieue), territorio intorno a una città sul quale, per una lega, si estende la sua giurisdizione. Corvetto non è un sobborgo di Milano, da piazzale Corvetto si arriva a piazza Duomo in dieci minuti. Né funziona l’etimologia “luogo di banditi” (lieu de bandits) fantasiosa quanto suggestiva, perché Corvetto non è un posto di malacarne. Anche se un altro significato della parola “banditi”, messi al bando, aiuta a capire quello che qui succede.

L’arcivescovo di Milano Mario Delpini invita a non usare la parola periferia. Proviamo a seguirlo: Corvetto è un quartiere problematico sin dal suo sorgere operaio, meta allora dell’immigrazione interna, i cui abitanti rischiano di essere messi al bando, di essere spinti fuori dalla città. Città a cui invece appartengono a pieno titolo, tutti: milanesi, meridionali di vecchia immigrazione, europei dell’Est giunti qui negli anni Novanta, egiziani copti e musulm...

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