
I due luoghi comuni che Luis Enrique vuole sfatare in finale di Champions

Le etichette sono come carta moschicida. Una volta che si attaccano alla schiena può non bastare una vita intera per liberarsene. Ne sa qualcosa Luis Enrique da Gijón, Asturie, l’uomo che da esattamente dieci anni lotta per scrollarsi di dosso un pregiudizio. È il 6 giugno del 2015 e sotto il cielo serio di Berlino il Barcellona vince la quinta Champions League della sua storia completando il triplete. Solo che quel successo abbacinante si trasforma in un peccato originale. Perché Luis Enrique ha avuto la colpa di mandare in campo Messi, Suarez e Neymar. Contemporaneamente.
La filastrocca su Luis Enrique e il sogno del Psg
Fuori dalla Catalogna in molti iniziano a ripetere sempre lo stesso concetto. Fino a trasformarlo in filastrocca. Con quei tre lì davanti, dicono, chiunque sarebbe riuscito a trionfare. È una cattiveria che Luis Enrique si porterà dietro per il resto della sua carriera. E che gli verrà rinfacciata a ogni sconfitta. Almeno fino a sabato sera, quando lo spagnolo avrà la possibilità di scrivere una storia tutta diversa.
Per anni il Psg ha rincorso il sogno della coppa con le grandi orecchie. E lo ha fatto nel modo più volgare possibile: iniettando una montagna petrodollari nelle casse del club. Acquistando i migliori giocatori a prezzi pornografici. Luis Enrique è arrivato a Parigi quando questa tendenza si stava ormai affievolendo. La sua prima estate in plancia di comando è coincisa con la partenza proprio di Messi e Neymar. Gli restava solo Mbappé. Il francese è andato via questa estate. Gratis. Per inseguire il sogno di vincere tutto con il Real Madrid. «Senza di lui saremo più forti», ha giurato Luis Enrique. Sembrava una bestemmia urlata fra le navate di una chiesa. Invece si è trasformata in una verità difficile da scalfire.
Paris Saint-Germain senza fenomeni in finale contro l’Inter
Quest’anno i parigini hanno sacrificato altri 200 milioni di euro sull’altare del calciomercato. Ma invece di mettere su una squadra di plastica, invece di provare a incastrare una stella accanto all’altra, per una volta il club ha deciso di battere un sentiero diverso. Sono state spese ancora cifre monstre, per carità, ma stavolta non per i campioni celebratissimi, quanto per ragazzi giovani e dal talento sconfinato. È qualcosa di molto simile a una rivoluzione. Quella squadra di egomostri che in Europa aveva sempre fallito è stata smantellata un pezzo alla volta. Il club che ancora più dei Galacticos aveva fatto dell’individualismo la propria bandiera si è fuso in un gruppo, ha forgiato un collettivo.
Il risultato è una rosa giovanissima, con un’età media di 23,6 anni (l’Inter, ad esempio, è molto più “vecchia”, con una media di 29,3 anni per giocatore). Luis Enrique è stato il demiurgo di questa trasformazione. L’uomo giusto nel posto giusto. Quello che sembrava essere (dopo Guardiola) la massima espressione della filosofia del Barcellona è diventato un vessillo di Francia.
L’arrogante Luis Enrique, perfetto per Parigi
L’identificazione fra tecnico e Parigi è quasi perfetta. Un mister arrogante in una città altezzosa che per secoli ha vissuto il proprio complesso di superiorità. Per qualcuno il tecnico assomiglia al Re Sole, il sovrano che disse: «Lo Stato sono Io». Ad altri ricorda De Gaulle, l’eroe nazionale che disse: «Quando voglio sapere cosa pensa la Francia lo chiedo a me stesso». È una ricostruzione vera soltanto in parte.
Perché Luis Enrique è molto più dell’ultimo hombre vertical. È tutto e la sua negazione insieme. Autoreferenziale ma anche attento a riconoscere i meriti altrui. Accomodante ma anche dannatamente intransigente su alcune questioni di principio. Leale ma ossessionato dalle cospirazioni.

L’addio fratricida in Nazionale
C’è una vicenda che racconta piuttosto bene i suoi angoli bui e quelli più illuminati. Nel 2019, quando era commissario della Nazionale spagnola, si dimise per un grave problema familiare. Lasciò la sua squadra a Robert Moreno, suo storico vice. Poi, una volta tornato in sella, il suo primo atto è stato fare fuori l’amico che gli aveva tenuto in caldo la panchina. L’accusa è pesante. Moreno avrebbe voluto fargli le scarpe. Sembra di sentire quel verso di Lucio Dalla: «È un amico diventato nemico che mi ruba la voce». Luis sceglie parole diverse. «Moreno è ambizioso, lo capisco e va apprezzato per questo. Però per me il suo comportamento è sleale, io non farei mai una cosa del genere e non voglio nessuno così nel mio staff». E ancora: «Non sono il buono dei film, ma neanche il cattivo».
Da quel momento non si può più tornare indietro. C’è un prima e un dopo quell’addio fratricida. La stampa non gli perdona più niente. Durante gli Europei del 2020 non convoca in Nazionale neanche un giocatore del Real. Dalla capitale parlano di un suo sentimento antimadridista. Tanto che molti spagnoli iniziano a tifare contro la Nazionale. È una disfatta annunciata.
Luis Enrique è stato tutto e il suo contrario
Le Furie Rosse si fermano ai quarti contro l’Italia. Poi ai Mondiali in Qatar va ancora peggio. La Spagna viene eliminata agli ottavi dal Marocco. Luis ormai è di troppo. Così viene messo da parte. In patria cominciano a chiamarlo in tutti i modi. Quelle sue maniere sempre insofferenti gli valgono il soprannome di “Grinch”. Qualche giornalista parla apertamente di un «gran maleducato». Altri tirano fuori i suoi problemi con i giocatori già rappresentativi come Totti, Messi e Jordi Alba. Sono tutte schermaglie che lo fanno sorridere. Luis Enrique ascolta e scrolla le spalle.
Qualche giorno fa Hakimi, il terzino destro del Psg, ha definito il suo allenatore «un genio». È solo parzialmente un’esagerazione. Ora Luis Enrique ha la possibilità di infrangere la maledizione dei parigini in Champions League. E può riuscirci per giunta con una squadra senza stelle. Una missione difficile per tutti. Tranne che per un uomo che ha saputo essere tutto e il suo contrario.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!