Contro lo Stato educatore nazionale
Proponiamo un intervento di monsignor Luigi Negri, vescovo emerito di Ferrara scomparso il 31 dicembre scorso, pronunciato a un convegno organizzato dall’Agesc e pubblicato sul Quaderno Agesc n° 6 / Gennaio 2015 (i titoletti non fanno parte del testo originario, ma sono redazionali).
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Vorrei raccogliere brevemente alcuni spunti di carattere culturale che da sempre fanno da sottofondo alla riflessione sulla scuola.
La prima osservazione è questa: il diritto di educazione, la sua dignità naturale, appartiene ad una autentica esperienza di popolo. Una persona ha diritto di professare la sua cultura, qualunque essa sia; una persona ha il diritto di professare una cultura che la stringe ad altri perché la cultura, cioè la visione ultima della realtà, è quella che obiettivamente stabilisce la socializzazione. Affermare il diritto alla cultura è affermare conseguentemente il diritto all’educazione. Non esiste cultura se non può essere verificata, se non può essere approfondita criticamente la sua coscienza, se essa non diventa una esperienza di maturazione.
Chi è l’uomo?
In questa prospettiva mi sembra interessante fare riferimento a quella identificazione fra cultura ed educazione indicata nel volume di mons. Luigi Giussani Alla ricerca del volto umano. Sullo sfondo non sta un problema istituzionale, ma un problema antropologico e sociale. Chi è l’uomo? Qual è il soggetto che ha un diritto fondamentale a professare le convinzioni in cui crede, a strutturare rapporti? La cultura non aggiunge qualche cosa ad una identità già costituita, la cultura è la vita di un soggetto. Il diritto alla libertà di cultura, e quindi alla libertà di educazione, appartiene all’esperienza di un autentico soggetto umano e quindi ad una realtà popolare.
Su questo punto ci ha insegnato molto la dottrina della Chiesa: il diritto alla cultura e all’educazione sono diritti che si acquisiscono naturalmente e non a partire da una istituzione, in particolare dall’istituzione statale. L’istruzione statale deve riconoscere una dinamica che naturalmente è formulata dentro l’esperienza dell’uomo e della sua appartenenza ad un popolo.
Stato totalitario
La seconda osservazione va riproposta con molta chiarezza e radicalità: in questa vicenda della scuola ci troviamo di fronte ad una ennesima riproposizione di una concezione totalitaria dello Stato. Una concezione totalitaria che non attiene al modo e all’esercizio del potere, ma che riguarda la concezione stessa dello Stato.
Sarebbe una ingenuità imperdonabile dal punto di vista culturale il non rendersi conto che una costante della cultura e della politica moderna è andata fortemente insistendo sul fatto che lo Stato è una categoria totalizzante: in questo senso il totalitarismo non è un modo di esercizio del potere, ma è una concezione.
L’eticità dello Stato si può raggiungere secondo un’ideologia di carattere razionalistico illuministico, si può raggiungere dal punto di vista di una serie di osservazioni sociologiche: è indubbio che lo Stato moderno-contemporaneo ha fra le sue basi questa componente, che viene però temperata dalla dialettica che questa concezione di Stato incontra nel suo cammino storico.
Concezione statale dell’educazione
L’incontro-scontro, o la dialettica, tra questa concezione totalitaria dello Stato e la dottrina sociale della Chiesa, rappresenta un forte elemento di temperamento di questa tendenza statalista. La situazione esistente nel nostro paese ha visto progressivamente svolgersi una dialettica fra una concezione totalitaria e una concezione più sociale, ma, in ultima analisi, dietro il centralismo statale dell’educazione sta sostanzialmente l’idea che lo Stato sia un educatore, è l’educatore nazionale.
Certi riferimenti ad una concezione nazionale che ha come soggetto ultimo il ministero della Pubblica Istruzione risultano sconcertanti. Se si dovesse parlare di educazione nazionale infatti non si potrebbe non parlarne se non in senso pluralistico: parlarne in senso unitario significa possedere una immagine di Stato educatore o etico che pensavo non si proponesse più. Credo che ciò sia dato da mettere sul tappeto.
Valorizzare le differenze
La terza ed ultima osservazione riguarda la questione sociale. Credo che la democrazia sia il rispetto e lo sviluppo delle differenze; non si configura innanzitutto come ingegneria costituzionale, anche se ha valenze costituzionali.
Credo però che la democrazia non possa esistere in un paese se le differenze esistenti non vengono riconosciute e valorizzate, se non si prende coscienza delle differenze e non le si porta a maturità.
In questa prospettiva l’educazione è la condizione di un dialogo effettivo, in quanto la famiglia è da sempre il luogo delle diversità fondamentali in cui l’uomo nasce, cioè rappresenta la sua cultura, la sua tradizione. Le stesse differenze tra le persone si stabiliscono all’origine per una appartenenza a famiglie diverse.
Il cuore della dialettica democratica
Lavorare per una omologazione, pertanto, vuole dire lavorare contro le differenze esistenti nel nostro paese. Sono le differenze, infatti, che consentono che la democrazia sia qualcosa di più di un formalismo, lavora perché non ci siano le differenze.
Con una conseguenza alle due osservazioni fatte, che vorrei riproporre in questi termini: la questione scolastica è la questione fondamentale della politica, la libertà di educazione è la questione centrale della vita di una nazione.
Se la vita politica, infatti, è la cura della libertà di un popolo, non può essere relegata ad un aspetto marginale: è dal punto di vista sostanziale il cuore di una dialettica democratica, che voglia assumere tutta la pienezza delle sue dimensioni.
Foto Ansa
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