
Loris Stival. L’accusa di «omicidio con cinismo» è schiuma da giornali, filosofia. Serve solo a nascondere che il male esiste

Stai a vedere che l’orrendo omicidio di un bambino diventa l’ennesima occasione per tacitare il male ed espellerlo in una superficie sulfurea irredimibile. «La madre ha ucciso Loris con cinismo». Se questo è l’atto d’accusa che un procuratore ha messo nero su bianco e il Corriere della Sera ha messo in un titolo a tutta pagina, l’espressione è un alibi privo di senso, un non senso per non ammettere l’ipotesi più plausibile (ammesso che questa madre sia una assassina), per non adombrare un gesto di follia.
Cinico, letteralmente “canino, che imita il cane”, è una formula perfetta per noi giornalisti e, nel caso, per tutta quella folla di cronisti, grufolatori telematici, guardoni di posta alla soglia del carcere di Catania, maneggioni di telefonini che rubano scatti di una donna disgraziata che non sa dove andare a sprofondarsi e a incappucciarsi per quello che avrebbe fatto.
Poiché se questa donna è l’assassina, se ha ragione l’accusa, se con febbrile precisione tecnica (le telecamere, le contraddizioni, le bugie durante l’interrogatorio) tutto porta a una madre che strozza il suo bambino e lo butta rantolante in un buco di fogna, sarebbe evidente che il cinismo c’entra niente con la tragedia. C’entrerebbe piuttosto l’evidenza di una malattia. Servirebbe un Rorschach test o un test di Szondi per aggettivare un’imputazione, non il vocabolario Treccani.
Subito una perizia psichiatrica, occorrerebbe. Immediatamente un consulto con persone del mestiere, competenti non a suonare i citofoni a povere nonne sgomente, madri che si sono ritrovate nell’impossibilità di sostenere un’adolescenza disagiata, una maternità irriflessa, un matrimonio incagliato in una fragilità infantilistica.
C’è il male, altro che il cinismo. Il male è materia, il cinismo è filosofia. Il male è accidente misteriosamente radicato nell’essere, il cinismo è la superficie di noi contemporanei. Il male si colloca al livello di un’umanità ferita (così direbbe l’esperienza cattolica della vita), il cinismo origina in quel particolare frangente in cui l’uomo teorizza che niente è reale se non il proprio gusto.
La donna nega risolutamente tutto, nei video vede solo ombre (e anche noi, francamente, non vediamo altro che ombre) e ripete incessantemente, forsennatamente, forse e probabilmente mentendo anche a se stessa, sinceramente mentendo a se stessa, clinicamente mentendo a se stessa: “Lì, io non ci sono”. E la folla che le grida “vergogna”? La folla, quella sì, istruita al cinismo, istigata dal cane dell’indignazione, ripete caninamente quello che circola sui mezzi di comunicazione.
In questo tragico epilogo di destino tragico, c’è solamente l’incapacità di nominare le cose, di dare il nome alle cose, piuttosto che inseguire fantasmi, inseguire il circuito mediatico-giudiziario che deve annegare in parole immaginifiche, in istituzioni emotive (l’istituzionalizzazione dello sdegno, dello scandalo, della gogna) il semplice fatto che esiste il male, la disgrazia di una malattia, il mistero di una madre che dice “io non ci sono”, “io non sono quella lì”. E infatti lei non c’era, lei non è quella lì, lo sa Dio, lo sa Loris, lo sa questo povero cielo che piange lacrime che nessuno vuole asciugare.
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Oggi su Repubblica Umberto Galimberti da la sua interpretazione del fatto che alcune volte le donne uccidono i loro figli e che a mio parere è assolutamente condivisibile. Galimberti sostiene che “in ciascuno di noi ma più marcatamente nella donna, in quanto depositaria della specie, ci sono due soggettività: una che dice “Io” con i suoi progetti, i suoi ideali, i suoi sogni, le sue aspirazioni, l’altra che ci prevede come semplici “funzionari della specie”. Le due soggettività sono in conflitto in quanto le esigenze della specie non coincidono con quelle dell’Io. Per questo l’amore materno non è mai disgiunto dall’odio materno, dal momento che il figlio vive e si nutre del sacrificio della madre che dal concepimento in poi, deve assistere alla trasformazione del suo corpo, al trauma della nascita e successivamente, al sacrificio del suo tempo, del suo spazio, del suo sonno, del suo lavoro, della sua carriera, delle sue relazioni, dei suoi affetti e talvolta anche dei suoi amori, per la totale dedizione al figlio. Questa ambivalenza di amore odio, che il mito dell’amore materno stenta a riconoscere, chiede una soluzione che, in particolari condizioni psichiche, può generare il più terribile degli eventi.”
Solo uomini e donne senza figli ritengono una cosa del genere inconcepibile…chi ne ha sa perfettamente che un figlio ti porta al limite…certi gesti però sono anche lo sbocco naturale della solitudine moderna delle famiglie, soprattutto le donne, sole ad affrontare una vita mai difficile come adesso.
E’ la stessa sensazione che provo vedendo il cinismo con cui tanti politici e tanta opinione pubblica guarda l’aborto , uccisione di un non nato.
So che vado OT, ma è la stessa cosa che ho pensato anch’io. Se questa povera donna (ammesso che sia stata veramente lei) si fosse disfatta del figlio 8 anni e mezzo fa, l’avrebbero sostenuta e definito la sua azione l’applicazione di un diritto. Adesso le urlano contro solo perché quel bambino si poteva vedere a occhio nudo e parlava…
Il cuore dell’uomo è misterioso capace di grandi gesti di carità o di solidarietà (es. la colletta alimentare che nel momento di crisi più profonda del nostro paese riesce ad incrementare la raccolta del 3% rispetto all’anno passato) e gesti contro natura come l’assassinio del piccolo Loris (ammesso che sia stata la madre).
Sia il bene che il male non solo il male è radicato nel nostro essere.
Che il bene la spunti c’è bisogno di un abbraccio,di qualcuno che ti accarezzi, di qualcuno che ti vuole bene, questo è quello che è mancato in questa maledetta storia.
Amicone ci mostra ancora una volta che c’è un lato più umanoe più crisitano di vedere le cose.