Quanto sta accadendo in questi giorni a Timor era largamente prevedibile. Per questo sembra incredibile che l’Onu e i Paesi impegnati alla supervisione del referendum sull’indipendenza dell’8 agosto non abbiano organizzato un ragionevole piano di emergenza, considerando anche le evidenti avvisaglie di tensione che hanno preceduto il voto non solo a Timor, ma anche a Aceh e a Ambon. La superficialità che ha sempre accompagnato le relazioni internazionali con l’Indonesia è stata gravissima. Forse ha pesato un’eccessiva fiducia nella capacità del Governo indonesiano di controllare la situazione e, soprattutto, sulla disponibilità e sull’affidabilità dell’ABRI. Invece il Governo è indebolito dal voto di luglio e in vista delle elezioni presidenziali che si terranno a novembre, mentre la fedeltà delle Forze Armate è sempre stata storicamente rivolta innanzitutto a se stesse, ai propri interessi e alla propria ideologia.
Il generale Wiranto, comandante delle Forze Armate e ministro della Difesa, insiste sul fatto che le forze Onu entrando a Timor-Est violerebbero la sovranità nazionale indonesiana, in quanto la regione non è ancora indipendente. Legalmente però le sue affermazioni non reggono, non essendo mai stata riconosciuta internazionalmente (con l’eccezione dell’Australia) l’annessione all’Indonesia di quel territorio, avvenuta nel 1976. La parole del generale esprimono tuttavia molto bene il punto di vista dei militari e costituiscono una minaccia di non poco conto. La crisi di Timor ha così definitivamente chiarito chi detiene il vero potere a Giakarta. Anche i politici che si sono battuti per la caduta di Suharto e per la democratizzazione, quando non sposano la causa del “nazionalismo indonesiano”, preferiscono ritirarsi nell’ombra e lasciare sbrogliare la questione ai diretti responsabili, Governo e ABRI.
I non molti politici moderati che si erano professati apertamente a favore dell’indipendenza timorese, in questi giorni ovviamente tacciono.
In effetti il rischio di un colpo di mano dell’ABRI non è un’eventualità remota. Lo stesso Suharto era salito al potere con l’appoggio dei militari dopo che una quasi guerra civile con il partito comunista aveva dimostrato la debolezza di Sukarno. Si può immaginare dunque che l’improvvisa concessione del referendum da parte di Habibie all’insaputa dei militari, possa essere visto come un tentativo di sganciare il potere politico dal pesantissimo controllo dei militari.
Se così fosse, l’idea di “passare sopra” l’ABRI costituirebbe una gravissima ingenuità – al limite della stupidità – i cui risultati sono le conseguenze che vediamo oggi, con il rischio concreto per la stessa Indonesia di dover scegliere tra il caos e una nuova dittatura militare.
Ad ogni modo, a detta di molti diplomatici, Habibie – pur essendo ancora formalmente presidente – politicamente è ormai “carne morta”: a prendere tutte le decisioni è Wiranto e non è escluso che il generale si stia preparando il terreno per una entrata “legale” alla Presidenza con le prossime elezioni di novembre.
Dunque il comportamento dell’ABRI nella crisi di Timor assume contorni un po’ più definiti. È certo che i militari hanno interessi economici da difendere a Timor e che per molti di loro la mancata sottomissione e l’indipendenza della regione costituisce un’umiliazione. Tuttavia l’ABRI ha già raggiunto almeno due obiettivi concreti. Innanzitutto ha messo definitivamente fuori gioco Habibie e assunto di fatto il controllo dell’Indonesia. Poi ha lanciato un chiaro messaggio su cosa capiterà a chiunque altro avesse mai intenzione di intraprendere seriamente la strada dell’indipendenza.
A ben vedere il rischio di una destabilizzazione globale dell’Indonesia costituisce una seria preoccupazione anche per l’Onu e nessun potere che conta al mondo, sia esso politico, militare o economico, vuole correre questo rischio. Si veda a proposito la questione degli aiuti economici di cui è stata minacciata la sospensione ma che, probabilmente, continueranno ad affluire nelle casse delle banche indonesiane.
La memoria della crisi del ’97 è troppo vicina e senza il sostegno monetario esterno l’Indonesia andrebbe di nuovo a picco in pochi giorni.
Risulta improbabile anche un effetto domino nel Sud-est asiatico e sugli altri movimenti indipendentistici sparsi per il continente. Certamente il caso di Timor-Est, come il caso del Kosovo, verrà a costituire un precedente comunque le cose vadano a finire: in caso di successo l’indipendentismo timorese potrà giustificare l’attività e le richieste di appoggio internazionale degli altri movimenti, indipendentistici e non, dentro e fuori dell’Indonesia; al contrario, nel caso di un successo della politica repressiva dell’ABRI, molti governi si sentiranno liberi di intraprendere più gravi repressioni, sicuri dell’incapacità ad agire dell’Onu.
Dal punto di vista degli schieramenti internazionali, l’Indonesia sembrerebbe essersi posta da sola in uno stato di isolamento. I suoi maggiori sponsor sono sempre stati quei paesi che ora chiedono l’indipendenza di Timor e l’impiego di forze Onu. Allo stato attuale non parrebbe poter più contare sulla complicità di Usa, Australia, Gran Bretagna, Germania che avevano finora appoggiato il regime di Suharto, chiudendo gli occhi sulla sue atrocità e rifornendo ampiamente gli arsenali dell’ABRI. Molti però sono i dubbi che le cose siano effettivamente cambiate: basta considerare la determinazione di tutti ad aspettare l’autorizzazione di Giakarta per fare entrare a Timor forze di pace. Nessuno vuole uno scontro e l’ABRI lo sa.
Per quanto riguarda invece gli altri paesi dell’ASEAN è improbabile che si intromettano direttamente nella faccenda. Innanzitutto perché la regola non scritta è sempre stata quella di non interferire nelle politiche interne degli stati membri e poi perché tutti quei paesi hanno già i propri problemi a cui difficilmente vorranno aggiungere un possibile scontro aperto con le potenze occidentali. La solidarietà islamica contro i diavoli occidentali è d’altra parte sepolta dai tempi della guerra del Golfo. L’unico paese importante che potrebbe prendere posizione a favore di Giakarta in caso di grave scontro potrebbe essere la Cina, se non altro per pura opposizione a Usa e alleati ma, considerando lo spirito nazionalista cinese (molto spesso più importante di confini ideologici e geografici), resta in dubbio quale aiuto essa sia disposta a concedere a un paese da sempre anti-comunista e che ha una lunga e continuata tradizione di gravissime violenze contro la minoranza cinese.