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L’occidente e il suicidio della libertà

Lo sganciamento della libertà dal bene oggettivo e la sua riduzione a libera scelta spinge la nostra civiltà verso il nichilismo suicidario

Francesco Botturi
16/12/2004 - 0:00
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Che cosa rende il costume laico occidentale tanto attaccato – quasi avvinghiato – a determinate forme di comportamento, a determinati stili di vita, divenuti ormai tabù che è impossibile discutere, ma è possibile solo “rispettare” come forme ovvie del nostro vivere pluralista e tollerante? C’è qualcosa che accomuna le questioni dell’identità sessuale, della relazione tra i sessi, dell’aborto, dell’eutanasia? O, ancora, c’è un’idea dominante nell’ethos occidentale contemporaneo?
La risposta non sembra difficile: è l’idea che tutti gli ambiti dell’esperienza umana non siano altro che esercizi di libera scelta e perciò siano interamente “a disposizione”. Il comune denominatore è insomma la persuasione che sessualità, affetti, paternità/maternità, vita, morte sono campi di esercizio della libertà, in cui il soggetto moderno (o quel che resta di esso) gioca tutta la sua consistenza e dignità. La difesa della libertà è, infatti, l’argomento pubblico per eccellenza a sostegno della temporaneità dei legami affettivi, dell’equivalenza antropologica e morale delle identità sessuali (etero/omo/bi/trans), della fecondazione tecnologica, dell’aborto procurato, della liceità dell’eutanasia. E dunque sono scelte da difendere ad oltranza – costi quel che costi –, perché ne va della libertà degli individui e delle conquiste della modernità. Argomento che si impone anche a chi non condivide tali scelte e stili di vita, ma, in quanto scelte possibili, è pronto a riconoscerne il valore equivalente: io non sono così, non faccio così, ma ogni scelta vale a pari titolo di ogni altra.

VIETATO DIRE “SBAGLIATO”
Ciò significa che il contenuto della scelta è stato ormai riassorbito dalla forma della libertà: non conta se ciò che è scelto è bene o male, ma solo se è stato scelto, è la forma dell’essere scelto che attribuisce valore al contenuto. Indifferenza del contenuto dunque e trionfo della forma: il formalismo della libertà unica origine del valore. Alle spalle sta la cancellazione dell’idea della libertà come adesione al bene, essendo lo stesso scegliere l’unico bene. Per questo i dibattiti sui temi etici del nostro tempo sono spesso dialoghi tra sordi: per quanto sforzo ci si metta a richiamare alla realtà dei fatti, alle ragioni delle cose, al fine della persona, al bene comune, se il valore è la libertà di scelta, non ci sarà argomento in grado di persuadere di alcunché, perché esiste un argomento unico e monotono, vincente e sempre pronto: il primato della libera scelta.
Questo – a ben vedere – è anche l’unico criterio che sta a capo del rispetto, del dialogo, della tolleranza, insomma dei maggiori valori pubblici dell’Occidente progredito, il cui contenuto non è infatti che lo spazio neutro delle opzioni; si dialoga per dialogare: non vorremo farne una questione di verità! Dove incontrare ormai un dibattito che discuta del bene/male di un certa scelta e dunque dove trovare una qualche preoccupazione per la buona o la cattiva sorte di chi la compie? Si fa irreperibile l’interesse per la giustezza delle cose e per il destino delle persone; basta che siano libere: l’indifferenza ostentata per il contenuto diventa indifferenza sostanziosa per le persone. Anzi, ogni apprezzamento di valore dei contenuti può essere considerato già una mancanza di rispetto, quasi un’offesa.

SE E’ SOLO LIBERA SCELTA, LA LIBERTA’ MUORE
Non si dica che così mettiamo in questione il valore della libera scelta, del rispetto, del dialogo, della tolleranza. Non intendiamo precipitare nel non senso dell’imposizione e dell’autoritarismo. Le tesi sono altre: è che l’idea delle libertà si sta sempre più riducendo ad un significato unico ed isolato, astratto e vuoto; che questo sembra essere l’ultimo fondamento di valore dell’ethos occidentale; di cui esso peraltro va orgoglioso e a cui è attaccato come ostrica allo scoglio, quasi per non sprofondare del tutto nel nulla, senza rendersi conto che è lo scoglio stesso che sta andando a fondo, portandosi nell’abisso il suo affezionatissimo mollusco.
Lo sganciamento della libertà dal bene, da un bene che non sia se stessa, che sia un’alterità reale, non solo mette la libertà in una condizione di sterile astrattezza, non solo la rende tautologica e narcisistica, ma la condanna a morte, perché una libertà così ridotta porta in sé un destino di morte. La fatale destinazione non è evidente; anzi, l’ebbrezza libertaria dà l’impressione di forza emancipata, di vigore intraprendente: non può fare finalmente ciò che vuole, non è definitivamente libero l’arbitrio?

IL POTERE ASSOLUTO E’ DI CHI SI TOGLIE LA VITA
Non si tratta di una minaccia di morte dettata da risentimento moralistico. Si tratta invece di logica: la libertà tautologica porta in sé un principio suicidario ed un ethos conforme conduce una civiltà al suo spegnimento. Si parla talvolta della “cultura di morte” che pervade il nostro tempo: stiamo dicendo che il suo principio è la contraddizione mortale in cui si viene a trovare una certa pratica della libertà. A che cosa si riduce una astratta libertà di scelta? È semplice: alla capacità di scegliere, al potere della scelta. Al potere del sì e del no, di questo piuttosto che quello. Potere identificante ed esaltante: quando un bimbetto dice il suo primo “no”, qualcosa di nuovo capita nell’universo, un’identità nuova ha cominciato ad affermarsi. Ma se crescendo lo stesso bimbetto non continuasse a dire altro che sì e no, senza curarsi del valore delle cose in gioco, senza passione e dramma per il suo stesso bene, ma solo per la soddisfazione di esercitare il suo potere cui ormai ha preso gusto, sempre più arroccato nell’idea che questo sia l’unico bene da difendere verso tutto e contro tutti, non diventerebbe in breve un essere odioso, e poi, crescendo nel potere della sua disposizione (tecnica, politica, culturale), anche pericoloso e infine terribile?
Terribile in ultima istanza verso se stesso, perché finirebbe per non potersi sottrarre – prima o poi – alla condizione di dover dare la prova della sua signoria assoluta. La crescita stessa del suo potere – di quello tecnologico, ad esempio – lo costringerebbe ad un pensiero sottile, strano, ma perfettamente coerente con la sua logica di vita, inchiodandolo ad un destino oggettivo ed inesorabile: solo un gesto estremo ha il potere di dimostrare che il dominio estremo della libertà di scelta non è un assurdo, ma è il vero, unico assoluto bene. Il potere assoluto di un essere finito (al quale resta pur sempre il difetto di non essersi dato la vita) sta infatti nell’impossessarsi della sua vita; ma non potendosela dare, ha un’unica strada per dimostrare il suo potere totale: quella di togliersela.

L’EROISMO BORGHESE (E SUICIDA) DEL POLITICALLY CORRECT
Il pensiero non è nuovo. Lo ha già formulato Dostoevskij con un personaggio de I demoni, che dà corpo a questa straordinaria intuizione del nesso che può legare la libertà alla morte. Si tratta dell’episodio dell’ing. Kirillov, che volendo dimostrare – non in astratto, ma in pratica – l’inesistenza di Dio quale condizione della propria radicale indipendenza, ritiene che solo il suicidio sia l’opera dimostrativa adeguata: solo in quell’attimo infatti avrà realizzato la perfetta equivalenza tra la propria libertà e la propria esistenza.
L’ateismo libertario di Kirillov non è un’esasperata ed eccentrica icona letteraria russa. Il protagonista del bel film “Mare dentro” – che tratta il caso dell’eutanasia – senza saperlo ripete con precisione il ragionamento dell’ingegnere, eroe suicida. Il protagonista è un personaggio postmoderno, che non ha il problema di dimostrare ciò che è evidente, cioè che Dio non esiste, ma ha il problema di dimostrare il diritto della propria libertà. È un eroe borghese, che non vuole instaurare un nuovo ordine del mondo; gli basta rivendicare il diritto di regolare i conti con la sua condizione di paraplegico. Ma in questo vuole essere totalmente il libero centro del suo mondo. Il suicidio assistito richiesto non è un atto di protesta: la famiglia lo ha sempre accolto e curato nei suoi ventotto anni di infermità; intorno a lui si anima la vita: ben due donne – l’una colta e raffinata, l’altra popolare e appassionata – si innamorano di lui; viene pubblicato un libro delle sue belle poesie e diventa anche famoso. Il caso insomma non è pietoso; è piuttosto il lucido perseguimento di un’idea: che la propria libertà sia in perfetta equazione con la propria vita; ma siccome non tutto è a disposizione, c’è una sola scelta risolutiva, il suicidio. Kirillov aveva già capito una cosa in più: che la logica di questa libertà non vale solo per i paralitici; che in gioco non sono solo i casi estremi, ma che c’è un gioco della libertà che in ogni caso la conduce all’estremo.
È tempo di svegliarsi: sotto la coltre del politicamente corretto pulsa troppo spesso una libertà disperatamente attaccata a se stessa, che tutto dispone e che è disposta a tutto, anche di pagare il suo prezzo con la sua stessa vita. Una libertà che porta in sé un segreto destino di morte. Non è vero che è un Occidente attaccato alla vita che si sta confrontando con un aggressore votato alla morte: per questo l’Occidente è posto sempre più di fronte ad una decisione suprema quanto al suo destino.

*docente di Filosofia morale presso l’Università Cattolica di Milano

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