Little Fires Everywhere. Un imprevisto è l’unica speranza

Di Simone Fortunato
17 Settembre 2020
Una miniserie molto ben scritta sulla pretesa di tenere sotto controllo ogni minimo dettaglio della vita. Le recensioni del numero di settembre 2020 di Tempi
Screenshot di Little Fires Everywhere

Articolo tratto dal numero di settembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Ci sono tanti piccoli fuochi un po’ ovunque in questa miniserie targata Abc e disponibile su Prime Video. Fuochi che sono evidentemente una metafora: perché c’è qualcosa di irriducibile nel cuore dell’uomo, qualcosa per cui stanno strette le regole del mondo di qui, piccolo borghese, bianco, di destra, moralista. Ma anche le regole del mondo di là, ribelle, povero, anarchico, non aiutano a spegnere questi maledetti fuochi.

Insomma, nella piccola cittadina di Shaker, c’è una madre modello, interpretata dalla brava Reese Witherspoon, con la casa pulita che pare quella del Mulino Bianco, le luci di Natale colorate e abbacinanti. Quattro figli che non rompono, giusto l’ultima è un po’ ribelle, un marito che è un gran lavoratore. Il pomeriggio del tè con le amiche, la siepe che non può essere più alta di 15 centimetri altrimenti ti becchi la multa, la carità per i più poveri che la spinge ad accogliere una coppia di derelitte, madre e figlia.

Tutto scorre e tutto è così dannatamente misurabile, quantificabile, controllabile, prevedibile. Fino all’Imprevisto.

Una delle classiche miniserie la metterebbe su questo piano: da un lato i borghesi bianchi e ipocriti, dall’altro le poveracce sfruttate cui va tutta la nostra simpatia: qui non è così. Non è così perché la realtà è molto più articolata, perché tutti abbiamo un punto di non ritorno, che non è banalmente una crisi o un pruriginoso segreto, ma perché tutti, bianchi e neri, ricchi e poveri, ad un certo sbattiamo contro il muro dell’Imprevisto.

C’è sempre qualcosa che non torna in questa miniserie, davvero molto ben scritta. Puoi essere la mamma perfetta, eppure vedrai i figli andare altrove lontano da te. Potrai essere l’artista più celebrata eppure incapace di un rapporto sincero con la figlia e con te stessa.

Una volta, a scuola, una mamma se ne uscì con un «non voglio che mio figlio sia rotto», come fosse un giocattolo. In Little Fires Everywhere c’è proprio in ballo questo, la pretesa di due mamme di avere tutto sotto controllo, dal giardino ai figli, un controllo ansioso che vuole sigillare tutto ma non vi riesce. Basterà uno spiraglio, una fessura attraverso cui passerà uno sputo d’aria. E tutto divamperà, i progetti diventeranno cenere, rimarrà solo la consapevolezza di dover ripartire da zero. Ma guardando a che cosa?

***

The West Wing

La prima grande serie che ci ha aperto la stanza dei bottoni

L’occasione è ghiotta: dopo anni in cui era disponibile solo in dvd o in tv proposta a orari assurdi, oltretutto in grave ritardo (3 anni dopo l’uscita statunitense), The West Wing – Tutti gli uomini del presidente è disponibile integralmente su Prime Video.

È una serie seminale come dicono i critici, che segnerà il passo assieme a Twin Peaks e cambierà il volto della tv. Innanzitutto per la mole: 155 episodi per 7 stagioni, tra il 1999 e il 2006, almeno una dozzina di personaggi principali e altrettanti secondari, la scrittura perfetta di Aaron Sorkin.

Soprattutto quel che ci piace, al di là di una legittima faziosità (il presidente è democratico, colto e idealista, i repubblicani tutti dei tipacci o quasi) è il tentativo di dare una visione ideale alla politica dentro un contesto complicato fatto di errori, invidie, ambizioni. Non è propaganda, anche se i riferimenti alle amministrazioni prima di Clinton e poi di Bush sono evidenti: è il giusto riconoscimento alla parola politica, sempre più bistrattata.

Forse è per questo che la serie ideata da Sorkin appare un po’ datata, ingenua, ma datele una chance e scoprirete che House of Cards, cupa, quasi spettrale, legata a un unico personaggio (e infatti inguardabile dopo l’uscita di questi), non regge il confronto.

Ideata da Aaron Sorkin

***

Screenshot di Tenet

Tenet

Che delusione questa continua autocitazione

Un agente segreto deve fermare un’apocalisse planetaria.

Atteso come il salvatore del mondo, Tenet è una delusione. Il gigantismo di Christopher Nolan applicato a una storia che è la brutta copia di Inception e con due interpreti non all’altezza. Là avevamo Leonardo DiCaprio e spalle come Tom Hardy, la Cotillard, qua ci sono due ragazzi più spaesati di noi.

Si capisce poco se non che Nolan reinventa se stesso: abbiamo contato diverse autocitazioni, da Il cavaliere oscuro a Inception presente ovunque, perfino nei dialoghi. Un’operazione fredda, meno interessante di altri suoi bei film (tipo Dunkirk o The Prestige).

Regia di Cristopher Nolan

***

Screenshot di Volevo solo nascondermi

Volevo solo nascondermi

Ligabue raccontato con lampi di luce

La vita del pittore e scultore italiano Antonio Ligabue.

Le cose più divertenti le abbiamo sentite alle casse del cinema con qualche fan di Ligabue (Luciano) capitato in sala per errore. Il film di Giorgio Diritti (L’uomo che verrà) imposta questo biopic su Ligabue (Antonio) in modo personale. Una prima parte complessa, che si snoda su più piani temporali e una seconda più tradizionale.

Il punto di vista ci piace: quello di raccontare non solo tecnicamente l’opera di Ligabue ma di raccontarla a partire dai legami affettivi che l’artista ebbe in vita, da quei pochi incontri di luce nel mezzo di una esistenza a prima vista disgraziata.

Regia di Giorgio Diritti

***

Renée Zellwegger nei panni di Judy Garland

Judy

Melodramma senza troppi vittimismi

Gli ultimi mesi di vita della cantante e attrice Judy Garland.

Melodramma biografico punito dal lockdown. Era appena uscito al cinema quando i cinema chiusero e trovò così poco spazio, nonostante la vittoria della protagonista, Renée Zellwegger, agli ultimi Oscar.

Un po’ didascalico nella narrazione, ha però il pregio di raccontare senza troppi discorsi quel che c’è dietro la maschera cinematografica della povera Judy Garland che, peraltro, è dipinta senza vittimismi ma come figura contraddittoria, irrisolta, alla ricerca di rapporti veri. Così non fu e il film prende sul finale il binario di una vera e propria tragedia della solitudine.

Regia di Rupert Goold

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.