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Liberi e allegri di portare la rivoluzione all’inferno (evitando via Veneto e passando al Meeting)

Luigi Amicone
21/07/2005 - 0:00
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I due più grandi quotidiani italiani continuano a perdere copie, la gente legge sempre meno, la lettura dei giornali non fa più concorrenza alle preghiere del mattino. C’è la tv, ci sono i nuovi media, c’è internet. Sono tante e diverse le ragioni della disaffezione all’uomo tipografico. Ma c’è anche la ragione, pura e semplice, che le élite che ispirano e fanno i giornali sono mosce e satolle, non hanno più idee aderenti al vissuto delle persone, non dilettano più il cuore e la mente dei loro sempre più disaffezionati lettori.

I giornali una volta servivano un po’ anche per cambiare il mondo. Pensate in Italia al ruolo che ha avuto il gruppo editoriale La Repubblica-Espresso. Pensate a quello che ha oggi il Foglio, pur senza avere grandi tirature. Pensate a Tempi, che il prossimo 28 agosto compirà dieci anni, cosa potrebbe rappresentare nel panorama dell’editoria nazionale, se solo si dotasse di una più robusta struttura editoriale e di maggiori risorse economiche (tipo i sussidi governativi che ricevono quasi tutti i giornali). Non è detto, ma potrebbe anche succederci di compiere più in fretta del previsto (ci siamo dati una ventina d’anni per sfondare) il nostro destino di settimanale indipendente, cotto e mangiato nelle edicole. Ma a parte questo, proviamo a insistere col coltello nella piaga.
Perché la gente legge sempre meno e, se proprio deve leggere qualcosa, in metropolitana, in treno, in autobus, legge i giornali distribuiti gratuitamente? Perché ha così tanto successo la cosiddetta free press?

Sì, certo, quando c’è crisi le prime cose che si tagliano sono i generi voluttuari. I giornali rientrano in questa categoria? Chissà. Intanto diciamo che basterebbe l’edizione di un giorno qualsiasi di quello che fu (sul principiare degli anni Ottanta) il più innovativo e importante quotidiano italiano, per capire come i lettori, anche i meno avveduti, devono aver avvertito che non sta più molto bene – sarà il peso degli anni, sarà l’ultimo referendum, sarà la defezione dal partito laicista di Marcello Pera – quella élite che andava a via Veneto. Già, perché una volta l’editoriale ti spiega che «Verità e autorità sono ovviamente incompatibili con dialogo e libertà». Un’altra che il vuoto pneumatico sono i pneumatici sgonfi delle pagine della cultura, tipo la rubrica di uno scrittore parecchio sopravvalutato (‘Sillabario’: sapete perché i grandi del G8 non si radunano nello scantinato sotto casa mia e vanno a cercarsi vetrine in giro per il mondo? «Per farsi notare dall’imprenditore veneto che commercia con la Russia»). Un’altra ancora è la favola di un altro sopravvalutato scrittore andino (intervista: sapete perché non c’è niente di più ovvio della legge che autorizza il matrimonio tra due persone dello stesso sesso e l’abolizione delle parole ‘madre’ e ‘padre’ nel vocabolario della lingua spagnola? «Perché mette fine a un’ingiustizia e a una criminalizzazione lunghe secoli», «c’erano persone, fino ad ora, che per legge erano emarginate dalla felicità. Ora non è più così»).

Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome
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Perdonate la vis polemica, ma è difficile immaginare tempi di più morta gora nel campo della produzione intellettuale e giornalistica. Una volta il pensiero e la conversazione pubblica si alimentavano di cose. La polemica viveva di contenuti portati al calor bianco e la laicità non era considerata un passpartout a prescindere dalla realtà. Aboliti i ‘perché’ e le ragioni cogenti, il laico di massa che scrive sui giornali è riconoscibile soltanto dalla livrea che indossa nel suo servire il potere di turno (scrive su quel giornale là, lo pubblica quell’editore lì, è un amico di quel tal banchiere). Questa è l’élite. E non sorprende più nessuno, perciò non si fa leggere, mette latte alle ginocchia, annoia. Sorprende, e ha sorpreso pure l’élite, che il popolo sia ormai da un’altra parte (anche se il popolo ultimamente si spiega solo per legittima e fortissima astensione a un referendum).

Vi domanderete, che c’entra tutto questo con un numero dedicato al Meeting di Rimini? C’entra per il fatto che è l’unico fenomeno italiano che da venticinque anni si ripete sempre immutabilmente uguale, eppure sempre immutabilmente affascinante e coinvolgente l’élite e il popolo. Un fenomeno dove la divaricazione tra alto e basso non esiste. E, nel caso, fenomeno di gente che non ha mai smesso di leggere, informarsi, studiare. Non lo diciamo soltanto noi che siamo di quella parte. Lo dicono i fatti. La sempre baldanzosa gioventù che vedi passare l’estate a costruire e disfare il teatro Meeting. La sempre ricca lista degli ospiti. La sempre attraente aria di festa popolare che si respira e la serietà che hanno le centinaia di incontri e manifestazioni che si svolgono in quella fiera. C’entra con il fatto che quest’anno siamo tutti più convinti che il compito che aspetta anche quel popolo lì, è interessante. Sono (siamo) cristiani, nati cioè per portare la rivoluzione all’inferno. Figuriamoci se questo paese da élite che sta come i cavoli a merenda alla storia che passa con le sue domande che non passano mai, non attende di vedere finalmente sorgere un variegato, libero, allegro, divertente, popolo di laici veri, che almeno ci provino a portare lo scontro sociale, come dicevano quelli che finanziavano il bar di via Veneto, fino al livello della lotta per l’egemonia.

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