Okinawa. Al prossimo vertice dei G8 (21-23 luglio) sono attese proteste simili a quelle di Seattle. In effetti, anche se l’agenda delle superpotenze è ricca di interessanti temi politici planetari, qualche ironico osservatore giapponese sostiene che sarebbe già un bel successo se si raggiungesse un accaordo sulla costruzione di un eliporto militare americano galleggiante al largo della costa nella località di Nago (Nord di Okinawa), in un’area dove sembra che vengano a pascolare i dugonghi. Cioè: l’esercito americano contro indifesi mammiferi marini. E con la collaborazione del governo giapponese che paga. In effetti la sorte dei dugonghi, pur rimanendo degna di partecipata commiserazione, rischia tuttavia di ridurre le prospettive di quello che veramente succede ad Okinawa, sede di complicazioni politiche e culturali che vanno ben oltre lo scalmanare dell’eco-attivismo di tendenza.
Gli yankee nel regno di Ryukyu Le radici della questione risalgono abbastanza addietro: fino alla seconda metà dell’Ottocento Okinawa era sede del regno delle Ryukyu, uno stato deboluccio che pagava tributi all’impero cinese e contemporaneamente ai signori di Satsuma, nel sud del Giappone, feudatari alquanto indipendenti dallo shogunato giapponese. Poi l’impero cinese si trasformò in campo di gioco delle potenze straniere, mentre al contrario il Giappone (tra l’altro proprio sotto la guida dei signori di Satsuma) entrava come una locomotiva nel mondo moderno, importando a passo sostenuto usi e costumi delle potenze europee. Imperialismo compreso. E i primi a farne le spese furono proprio i re delle Ryukyu.
Seguì una notevole nipponizzazione delle isole, così che allo scoppiare della seconda guerra mondiale erano sostanzialmente territorio giapponese e non una semplice colonia. Okinawa è di fatto l’unico pezzo di Giappone ad aver fatto l’esperienza durante la II guerra mondiale di una battaglia campale tra giapponesi e americani con circa 200mila vittime, di cui una buona metà abitanti locali, spesso costretti al suicidio o ammazzati proprio da quegli stessi soldati giapponesi che, si supponeva, avrebbero dovuto proteggerli.
Dopo la resa del Giappone, Okinawa, come il resto del paese, finì sotto amministrazione delle forze di occupazione e data la favorevole posizione geografica in pratica venne trasformata in un’enorme base militare, particolarmente utile per la guerra in Corea.
Poi il Giappone tornò ad essere stato indipendente mentre Okinawa rimase sotto protettorato americano fino al 1972, anno in cui fu finalmente restituita al Giappone. In quegli anni gli abitanti di Okinawa, nonostante le varie esperienze storiche, si aspettavano finalmente grandi cambiamenti, soprattutto il rimpatrio dei militari americani.
Esercito Usa, contribuente nipponico e devolution Ma le cose andarono diversamente. I patti tra USA e Giappone erano e sono tuttora chiari: il Giappone, che non può avere un esercito per definizione costituzionale (dettata dagli Stati Uniti per prevenire un eventuale ritorno del militarismo nipponico), chiede la protezione dell’alleato a difesa dei propri lidi. A questo fine fornisce terreno e yen, così che le spese per il mantenimento di basi e truppe americane non escono dal budget di Washington ma dalle tasse dei giapponesi. Di queste basi, 38 (il 75% della presenza militare americana in Giappone) sono a Okinawa e dintorni.
Col passare delle turbolenze post-sessantottine di marcato accento anti-americano, Okinawa andò a trovare il suo posto in Giappone come rinomata meta turistica balneare. Ma sotto la superficie, la frattura politica tra Okinawa e Tokyo andava crescendo. Negli anni ’90 Okinawa torna alla ribalta: sono gli anni in cui si ricomincia a parlare di regionalismo e cultura locale. Le antiche tradizioni risalenti ai tempi dei re delle Ryukyu ritrovano interesse. La stessa cultura mainstream nipponica ne viene influenzata: per esempio, attualmente sia la più commerciale musica pop, sia la più raffinata world music di origine nipponica sono in gran parte caratterizzate da artisti di Okinawa.
L’incidente del ‘95 Ma proprio mentre l’isola tornava sotto i riflettori avvenne il patatrac: nel ’95 tre militari americani violentano una bambina di 12 anni. Il fatto porta 85mila persone in piazza come non se ne vedevano da anni. Torna il risentimento contro i militari americani, dettato più che dalle antiche ferite della guerra, dalla continua ostinata presenza per tutto il dopoguerra cocciutamente irrispettosa dei sentimenti della gente di Okinawa. Le proteste sembrano riuscire in parte nel loro intento e gli americani promettono di restituire la base di Futenma, riconoscendo che effettivamente è troppo vicina ad un grosso centro abitato.
E qui torniamo ai dugonghi di cui si diceva in partenza: gli americani infatti chiedono una zona di ricollocazione per poter far atterrare i propri elicotteri. E il governo locale, sotto le pressioni di Tokyo, propone Nago. Al momento la costruzione della nuova base aerea non è ancora cosa decisa e il dibattito continua; il destino dei dugonghi rimane dunque avvolto nel dubbio.
A voler vedere la cosa sotto un’ottica generale, certamente ci sono in ballo questioni molto complesse: Tokyo ha assolutamente bisogno dell’esercito USA, per varie ragioni di politica interna e internazionale; dal canto loro gli USA non hanno intenzione di mollare una tanto buona posizione strategica. Nel mezzo gli abitanti di Okinawa che, con buone ragioni, si sentono stretti nella morsa di giochi politici internazionali, esattamente come 55 anni fa.