In questo periodo di incertezza dalemiana nell’era del boss di Botteghe Oscure&soci vale tutto e il contrario di tutto perché tutti sono competenti in tutto. Riuscirà per esempio la riforma Berlinguer della scuola a formare dei buoni cuochi. Anche il mangiare e il bere hanno una loro cultura a parte nel nostro paese.
Gli chef non sanno più fare il loro mestiere e inventano piatti senza tradizione perché tanto il gusto di chi va al ristorante non importa (c’era una volta un testo edito da Sellerio, Brillat Savarin, “Fisiologia del gusto”), oggi questa fisiologia è andata persa; la gente è abituata a mangiare e ordinare prendendo per buona la lista che solitamente presenta piatti elaborati con nomi altisonanti che non hanno niente a che vedere con la nostra tradizione gastronomica. Sono stato alcune sere fa a mangiare presso il ristorante Penisola, “cucina popolare italiana”, così recita il biglietto da visita. Il proprietario ci accoglie con massima riverenza e ci offre mentre attendiamo il tavolo un Cartizze alla spina molto poco petillant e molto poco cartizze.
Abbiamo ordinato risotto con ossobuco; il piatto presentato era risotto e ossobuco con pomodoro: una bestemmia culinaria. Il piatto tipicamente milanese nella sua ricetta non prevedeva il pomodoro (almeno questo da bambino, seguendo a Ello il cuoco di mia nonna l’avevo imparato). Secondo una costata che mi è stata presentata troppo cruda (di solito al cliente si chiede ben cotta o al sangue), il contorno era di patatine tagliate a julienne che sicuramente erano surgelate, altri hanno chiesto la tagliata che è stata presentata con miele e pepe verde, troppo raffinata e disgustosa, passata come una specialità sarda a me è sembrata una nouvelle cousine di bassa lega. Aggiungo una mozzarella di bufala che di bufalo non aveva neanche il sentore presentata con tre pomodori e tre foglie di basilico (se si trattava di Caprese la faccio meglio io a casa mia). Dei dolci è meglio non parlarne.
Abbiamo annaffiato il tutto con una barbera Marcarini La Morra del ’97 diciamo sufficiente per essere buoni. Grappa e caffé mediocre, il tutto 90mila lire a testa: eccessivo e pretenzioso a mio giudizio.
La serata è finita con una discussione col titolare che voleva giustificare i suoi piatti raccontandoci la storia della sua esperienza di ristoratore e le invenzioni della sua cucina. Almeno rispettiamo le buone tradizioni italiane se ci si definisce “cucina popolare italiana” e forse questo aiuterà anche i dalemiani a tenere conto dell’identità del popolo italiano che ha ancora una ragione e non può essere ingannato, almeno sotto l’aspetto culinario da sedicenti ristoratori.
Ma non credo che la riforma della scuola concepita dal socio Berlinguer riuscirà a formare buoni cuochi e ristoratori se le premesse sono queste.
Mi sono poi rifatto a casa mia con un bicchiere di Inzolia torre dei venti ’98 delle cantine Fazio, un bianco pieno di corpo e fragrante dall’intenso profumo di frutta che dedico a tutti coloro che hanno la testa e il palato del buon bere e del buon mangiare, D’Alema, Berlinguer e soci permettendo.
Mario Amman Caro Mario, passiamo ai nostri enogastronomi politici la tua segnalazione del ristorante milanese, che evidentemente merita una visita: da quanto ci scrivono i nostri esperti, pare, infatti, che le critiche, se ben motivate contribuiscano, anche tra gli chef, a migliorare la qualità. E gli segnaliamo anche il tuo nome come quello di un potenziale collaboratore nella diuturna ricerca del gusto e del buono (del buon gusto). D’altra parte anche il direttore si ricorda del bel tempo e delle raffinatezze godute, a suo tempo, nel buen ritiro di Ello.