Leggere e rileggere il maestro Heschel

Era il consiglio che diede Paolo VI ai cristiani. Breve presentazione del pensatore ebreo da cui è tratto il titolo della kermesse riminese

Articolo tratto dal numero di agosto 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Abraham J. Heschel, che si concordi con lui o da lui si dissenta, fu uno dei principali pensatori religiosi ebrei del Novecento. Ancora oggi, a distanza di cinquant’anni dalla sua scomparsa, la lettura di molti suoi scritti risulta arricchente e illuminante. 

La biografia di Heschel muove dall’Europa orientale alla Germania, e da lì negli Stati Uniti. Sintetizzando, si può dire che il suo fu uno spostamento progressivo, anche traumatico, “verso Occidente” – con i suoi codici, i suoi linguaggi filosofici, le sue conquiste, il suo rigore, le sue fragilità costitutive e le sue illusioni, ivi incluse quelle ideologico-religiose –, mentre cuore e viscere restarono indissolubilmente ancorate al mondo antico, talora persino ancestrale, dell’Europa orientale: sospeso tra dimensioni oniriche e immote, eppure reali, e sommovimenti religiosi e politici, anche rivoluzionari.

I chassidìm – quel ricchissimo e assai differenziato movimento religioso ortodosso, di stretta osservanza, che animò le indigenti e reiette masse ebraiche dell’Europa orientale – erano invisi sia all’ortodossia illuminata e razionalista di Germania, Austria e Francia sia ai loro oppositori “lituani”, gli esponenti della più erudita e potente ortodossia ebraica, che ebbe le proprie principali roccaforti a Vilna e a Kaunas (Kovno). Fu un eccezionale scontro tra ebraismi ortodossi, che poi, almeno da un certo momento in poi, si coalizzarono, con diverse modulazioni, per opporsi ai venti deleteri della Riforma ebraica che conquistava adepti, più o meno entusiasti, nelle principali città universitarie tedesche.

Heschel dovette coniugare e tentare di riconciliare, in una personale e assai affascinante miscela, certamente raffinata, ebraismo e filosofia (il che significò dapprincipio “filosofia tedesca”, con gli sviluppi dell’idealismo, del neokantismo e della scuola fenomenologica), ortodossie e derive riformiste – anch’esse al loro interno frammentate e in polemica –, che meglio conobbe e interpretò successivamente negli Stati Uniti. Alla formazione tradizionale ebraica si accostò l’incontro con le filosofie religiose di Rosenzweig e di Buber e una certa fascinazione per il pensiero psicanalitico. Poi l’Europa collassò, e vomitò o arse i “suoi” ebrei. Heschel, come una volta si definì, fu così un «tizzone ardente» dell’incendio di Europa.

Tra “sgretolamento” e fede

Giunto negli Stati Uniti nel pieno splendore dell’“era americana” con i suoi miti, nonché dell’ascesa inedita, rocambolesca – e non di rado lontana dalla tradizione – dell’ebraismo statunitense, che raccolse chi scampò, spesso sconvolto, all’annientamento del millenario ebraismo europeo, Heschel si ritrovò a interrogarsi e muoversi tra ebraismo e contemporaneità, tra Rivelazione e ragione, tra atemporalità e accelerazione, tra eternità e superficialità, tra profondità e pubblicità, tra “sgretolamento” e fede. E a fare delle scelte, intellettuali ed etico-religiose, coniugando pathos e logos.

Fu così che, ad esempio, si schierò, con buona parte dell’ebraismo americano in tutte le sue correnti, a favore dei neri, sostenendo l’operato benedetto di Martin Luther King, che fu peraltro un formidabile sionista (questo nonostante il Black Power, che si oppone a King, sia spesso antisemita), marciando a fianco del celeberrimo pastore cristiano nero durante la Marcia di Selma.

Heschel seguì in prima persona i lavori del Concilio Vaticano II e incontrò papa Paolo VI, che raccomandò ai cristiani la lettura dei suoi libri, per riorientare il proprio pensiero. Fu così che iniziò in Italia la traduzione per case editrici cattoliche degli scritti di Heschel, nello spirito dell’incipiente e aurorale dialogo ebraico-cristiano. Questo spiega anche perché, indipendentemente dalla mole del volume, il suo scritto più importante, di argomento genuinamente ebraico, l’unico che lui scrisse direttamente in lingua ebraica, non sia ancora (purtroppo) apparso in italiano, il cui titolo inglese è Heavenly Torah: As Refracted through the Generations. Heschel fu un vero maestro, da parte ebraica, del dialogo ebraico-cristiano; tra i primi a vincere le resistenze e, ancor più, le diffidenze verso i cristiani e il cristianesimo dopo secoli di persecuzioni e ignominie patite.

È molto interessante e intrigante – e certamente positivo e carnoso frutto del dialogo ebraico-cristiano – che il Meeting di Rimini di quest’anno abbia come titolo programmatico una citazione di A.J. Heschel. Formulo quindi a uditori e relatori i miei migliori auguri per le iniziative che arricchiscono il programma, come pure rinnovo a noi tutti il mandato di Paolo VI: leggere e rileggere le opere di questo eminente e suggestivo pensatore novecentesco. Mi permetto un’avvertenza: chi voglia comprendere, con positivi riverberi sulla propria dimensione spirituale, il pensiero religioso ebraico del secondo Novecento, senza perdersi, deve accostare a A.J. Heschel almeno altri due autori – ebrei ortodossi – che, con lui, hanno arato ubertose aree del pensiero e dello spirito, seminando semi antichi e nuovi: i rabbini Joseph D. Soloveitchick e Eliezer Berkovits.

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