Le troppe incertezze dell’ennesima riforma sulla formazione dei docenti
In questo momento, una riflessione analitica sul Dl 36 del 30 aprile 2022, che sistematizza la formazione, il reclutamento e la carriera degli insegnanti della scuola secondaria, non può che essere parziale, perché troppe volte in passato la normativa è stata disattesa o addirittura tradita al momento della sua applicazione: non solo, ma bisognerà tenere conto della reazione dei diretti destinatari, perché non si possono fare le riforme senza (peggio, “contro”) gli insegnanti, e ci saranno certamente delle resistenze anche da questo punto di vista.
L’Italia è in ritardo sulla formazione
Tanto per fare un esempio, se l’abilitazione, come si è finalmente affermato, e come è giusto, non dà diritto ad un posto, ma si limita a riconoscere una qualificazione per accedervi, cosa succederà fra qualche anno, temo pochi, quando gli abilitati non vincitori di concorso cominceranno ad essere molti? La risposta «si chiederà una sanatoria» è sconfortante ma realistica. Per questo, nonostante qualche segnale positivo, non riesco a non essere pessimista.
Un’indicazione che mi lascia perplessa è che, ancora una volta, una riforma della scuola, per passare, deve infilarsi in un testo ben più ampio, che nel caso dell’autonomia riguardava la riforma della pubblica amministrazione (L.59/1997) e oggi riguarda le misure urgenti di attuazione del Pnrr. Se non ci fosse stata imposta dall’Europa, forse la riforma della formazione degli insegnanti sarebbe ancora in alto mare, segnalando un’estrema difficoltà di rinnovamento dall’interno. Eppure, è evidente che gli insegnanti costituiscono il punto cruciale per l’applicazione di qualsiasi riforma e quindi per il suo successo o fallimento, e l’Italia è in grave ritardo rispetto alla quasi totalità degli altri paesi sia per la formazione, iniziale e in servizio, che per la carriera e la valutazione.
Siamo già alla sesta riforma
Siamo stati fra gli ultimi paesi a istituire canali formativi universitari per i docenti: il Dpr 417 del 1974 prevedeva per i maestri delle elementari una formazione universitaria almeno triennale (fino a quel momento uscivano dall’istituto magistrale quadriennale), e per i docenti delle scuole secondarie una non meglio precisata qualificazione. Nel 1983, e poi ancora nel 1984 (a dieci anni di distanza) in mancanza di realizzazioni concrete il governo si impegna «solennemente» a presentare un disegno di legge, che dovrebbe prevedere la laurea quadriennale per i maestri e un anno di tirocinio post laurea per i professori. Però il corso di laurea in scienze della formazione primaria, per i docenti delle scuole per l’infanzia e delle scuole primarie, fu istituito nel 1998; le Ssis, scuole di specializzazione per i docenti della scuola secondaria, furono attivate nel 1999-2000 e chiuse nel 2008-2009 senza che si fosse fatto nessun serio studio sul loro funzionamento.
Il provvedimento era già considerato urgente, ma fu necessario pensarci su per 24 anni… E qui mi fermo: passando da varie sigle e forme più o meno sperimentali che dovevano (avrebbero dovuto) qualificare gli insegnanti, siamo, credo, alla sesta riforma. Solo l’esame di maturità può vantarne di più.
Percorso giusto, ma con troppe incertezze
Le tre tappe del percorso ora previste – preparazione specifica e qualificata, che comprende la laurea specialistica e i 60 crediti formativi per il conseguimento dell’abilitazione, il superamento di un concorso e poi di un anno di praticantato – mi paiono assolutamente condivisibili. A parte i punti oscuri che lasciano sia sui contenuti sia soprattutto sulle modalità di realizzazione (l’attivazione dei corsi sulla base delle necessità rilevate dal ministero è decisa in modo autonomo dalle università, e allora non ci sono garanzie che tutti i corsi necessari verranno attivati e in forma distribuita sul territorio, oppure viene imposta dal centro, e allora le università protesteranno perché si calpesta l’autonomia), purtroppo le eccezioni previste lasciano spazio a distorsioni, ad esempio il riconoscimento per l’accesso al concorso, ancora una volta, dei periodi di insegnamento, rigorosamente non valutati, come alternativa alla formazione.
Tutta la parte riguardante il tirocinio durante gli studi lascia anch’essa margini di incertezza: se i 20 Cfu si riferiscono a tirocinio “diretto” e “indiretto”, e se il tirocinio “indiretto” riguarda la riflessione sul tempo passato in aula – e non capisco perché debba essere considerata a parte! – gli atenei telematici, e non solo, potrebbero prevedere, ad esempio, quattro ore di tirocinio “indiretto” per ogni ora di tirocinio “diretto”.
Inoltre si parla dei tutor, di cui si occuperanno ben tre ministeri, che definiscono i criteri di selezione dei docenti che aspirano alla funzione di tutor, ma non di selezione delle scuole: ora, a mio avviso la scelta della scuola è cruciale tanto quanto quella del tutor. Il ruolo e le possibilità delle scuole paritarie e dei loro insegnanti sono ancora una volta ignorati, anche se quantomeno non esplicitamente esclusi: le organizzazioni di categoria stimano intorno a quindicimila il numero dei giovani docenti in servizio che potrebbero concorrere all’abilitazione.
Trionfo della burocrazia centralista
La Scuola di alta formazione, che sulla carta potrebbe essere una buona idea (ma quando suggerimmo, in una delle molte commissioni per la formazione dei dirigenti, di coinvolgere la Scuola nazionale di amministrazione ci fu un’opposizione totale e feroce) mi pare, per come è descritta e per i molteplici compiti che le sono affidati, un trionfo della burocrazia centralista, con una presenza poco più che formale dei due enti che negli ultimi vent’anni hanno lavorato seriamente per la formazione e la valutazione degli insegnanti, cioè l’Invalsi e l’Indire.
La sensazione che si possa trattare di un ennesimo carrozzone basato prevalentemente su nomine politiche è purtroppo più di una sensazione. La formazione in servizio, volontaria ma obbligatoria, almeno da un certo punto in poi, mi sembra piuttosto nebulosa, e per questo, come per il reclutamento dei tutor, mi chiedo se le stime quantitative siano state fatte in modo adeguato.
Scuola per tutti sì, ma di qualità
Si potrebbe continuare a lungo, ma direi che il vero problema è la triangolazione ministero, scuole autonome, enti di formazione (università, Afam e altri). Gli spazi per le scuole mi paiono così ridotti da essere ben poco significativi (non era previsto dal Pnrr, ma forse sarebbe stato opportuno almeno un accenno alle reti di scuole, una delle buone pratiche diffuse negli ultimi anni), e i meccanismi di reclutamento non consentono di manovrare le risorse umane in modo flessibile, per incrementare la qualità o ridurre gli sprechi. La traduzione operativa di tutte queste ipotesi di intervento richiede una capacità di programmazione che il ministero non mi pare in grado di garantire, almeno a giudicare dalle passate esperienze.
L’opposizione dei sindacati e delle associazioni di insegnanti si è già fatta sentire, anche se su aspetti strumentali, di tipo retributivo e di tutela del posto, assolutamente dignitosi se non contrastano l’obiettivo principale, che è quello non della scuola per tutti, ma della scuola di qualità per tutti.
Per troppi anni nella scuola sono entrati oves et boves et universa pecora, e non vorrei che fosse ancora valida l’affermazione del Censis sul finire degli anni Settanta quando parlava di una «espropriazione degli utenti in favore dei dipendenti», e nel 1981 (quarant’anni fa!) rilevava «la necessità di una programmazione nel reclutamento del personale» e di «avviare quelle politiche di riqualificazione delle prestazioni e del ruolo del personale docente che sole possono combattere un preoccupante processo di crescente disaffezione».
Foto Ansa
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