Le banche devono ricapitalizzarsi. Tutto torna, ma le imprese?

Di Massimo Giardina
02 Novembre 2012
Ubs taglia 10mila posti nell'investment banking e si fanno stringenti i vincoli imposti da Basilea 3 per le banche. Ma non si risolve il problema legato al bisogno di liquidità delle imprese ancora legate a vecchie logiche ragioneristiche.

Tra le notizie economiche di questa settimana è emerso che il settore bancario con maggiori sofferenze è l’investment banking inizialmente nato come attività consulenziale per le società che volevano quotarsi. Con il passare del tempo, sotto il nome di “banca d’affari”, si sono inserite una moltitudine di operazioni di natura strategica che legavano il mondo della finanza all’economia reale proponendo operazioni di fusione, emissioni obbligazionarie, cartolarizzazioni e molte altre ancora . Tutte le banche di grandi dimensioni e perfino alcune banche di credito cooperativo hanno sviluppato all’interno dei propri gruppi divisioni destinate all’investment banking e la notizia comparsa martedì mattina, in cui un colosso come Ubs ha annunciato tagli al personale di 10 mila posti, non lascia tranquille le maestranze del settore. Non si può dimenticare che negli anni pre-crisi, i guadagni per chi lavorava nell’investment banking erano tra i più allettanti, ma ora la redittività di questo settore è la più bassa tra le attività bancarie. Anche Credit Suisse ha annunciato tagli per 3.500 posti di lavoro.

MENO E MEGLIO. «La congiuntura negativa genera poco businness e molte perdite. La nuova normativa di Basilea 3 richiede più capitale e riduce la possibilità di guadagno legate alla trasformazione delle scadenze (raccolgo a vista e presto a lungo termine)» ha scritto mercoledì scorso Andrea Resti su MF Milano Finanza. La riflessione del professore della Bocconi è ampiamente condivisibile perché afferma un destino per le banche caratterizzato da «fare meno e meglio».
Nel quadro economico, l’accanimento, seppur giustificabile, verso il settore bancario non è sufficiente. La domanda di capitalizzazione delle banche in modo da evitare default tali da destabilizzare il sistema economico e finanziario è razionale, ma deve confrontarsi con l’interlocutore principale del settore creditizio: le imprese.

POVERA ITALIA. In Italia, la percentuale di aziende che autofinanziano il proprio capitale circolante è sotto l’1 per cento e le imprese si finanziano grazie al ricorso al credito di natura oneroso che nella maggior parte dei casi è di natura bancaria. Impedire o limitare le banche nel prestare soldi alle imprese nella catena produttiva del credito è una sorta di strozzatura perché il bisogno di liquidità permane.
La IV direttiva europea recepita con la legge 127/91 impone la pubblicazione dei bilanci di esercizio per informare tutti i soggetti coinvolti con le imprese (banche, fornitori, clienti, dipendenti, etc.). Oltretutto, la legge italiana impone un minimo di capitale sociale (10 mila per le srl e 100 mila per le spa) e nel momento in cui vengono intaccate tali soglie a fronte di una perdita superiore al terzo del capitale sociale, l’assemblea dei soci ha l’obbligo di intervenire o con la ricapitalizzazione o con la liquidazione.

I CONTI NON TORNANO. Dove sta l’inghippo? Il patrimonio è dato dalla differenza tra l’attivo e il passivo di una realtà societaria: tra i beni che un’azienda possiede al netto dei propri debiti. Questi ultimi sono sempre certi, mentre i primi rientrano in un range di valutazione per certe voci di bilancio molto variabile.
In molti casi le patrimonializzazioni delle società non sono adeguate ai flussi finanziari e le aziede devono ricorrere al credito per pagare stipendi e fornitori. Negli Stati Uniti le norme sono differenti: nella prassi le imprese sono più liquide delle italiane e lavorano con i propri capitali. La finanza interviene solo per operazioni strategiche: mutui, finanziamenti di medio lungo periodo o i cosiddetti bridge loan, mutui ponte realizzati per attraversare particolari momenti. Le operazioni autoliquidanti non vengono utilizzate e non vi è l’obbligo di pubblicazione dei bilanci (per le non quotate). Ciò che conta è che un’impresa sia in grado di remunerare i rapporti con i creditori secondo le scadenze contrattuali. Il resto non conta. Basti citare come esempio che Apple ha circa 100 miliardi di dollari (la somma di più manovre Monti) tra disponibilità a breve e a lungo termine e, fino all’anno scorso, non aveva mai distribuito utili ai soci. Ridimensionare la leva finanziaria delle banche (rapporto tra debiti e patrimonio) è giusto, ma il sistema deve prevedere di ristrutturare le imprese troppo dipendenti dal credito autoliquidante e di conseguenza troppo sensibili alle minime oscillazioni del mercato. Aziende sane, ben finanziate farebbero la differenza. E negli Usa si vede.

@giardser

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