Le Americhe

Di Lorenzo Albacete
01 Marzo 2007
La guerra al terrorismo, il ruolo della fede in politica, l'immigrazione. È su questi temi che gli Stati Uniti sceglieranno il successore di Bush

New York

Al momento attuale, questi sono i fatti. Tutto il resto è speculazione, perlopiù assolutamente prematura. Le elezioni presidenziali statunitensi si terranno il 4 novembre 2008. Il presidente e il vicepresidente si insedieranno il 20 gennaio 2009. Queste saranno le prime elezioni da ottant’anni a questa parte che non vedranno in corsa candidati già in carica. Normalmente, infatti, quando un presidente lascia la carica, il suo vice è considerato un candidato di punta e quasi sempre viene nominato per la successione. Invece l’attuale vicepresidente, Dick Cheney, nel 2001 ha dichiarato di non avere intenzione di correre per la presidenza, annuncio che ha ripetuto nel 2004. Dunque la corsa del 2008 a quanto pare sarà un’elezione senza candidati in carica, una cosiddetta competizione “a seggio aperto”, dove né il presidente uscente né il suo vice saranno in competizione. Non accadeva dal 1928.
Questo sarà anche il voto più caro della storia americana, stando al giudizio del capo della Federal Election Commission. Questi ha stimato che le presidenziali del 2008 saranno elezioni da 1 miliardo di dollari, in cui per essere “preso sul serio” ogni candidato deve riuscire a raccogliere almeno 100 milioni di dollari di finanziamenti entro la fine di quest’anno. A causa dei tempi lunghi del processo di raccolta fondi e a causa delle leggi federali sulle elezioni, che richiedono la presentazione di un bilancio prima delle elezioni primarie, la caccia agli sponsor è cominciata con molto anticipo. E probabilmente i media consacreranno i candidati alla Casa Bianca sulla base dei fondi raccolti.
Si terranno una serie di eventi finanziati dai diversi partiti durante tutto il 2007, inclusi incontri, sondaggi d’opinione e altri momenti destinati a offrire ai votanti una possibilità per conoscere meglio i candidati. I democratici, per esempio, il 21 febbraio hanno inaugurato in Nevada una serie di forum e conferenze, che proseguiranno in New Hampshire il 5 aprile, poi in South Carolina il 26 aprile. Anche il Partito repubblicano sta pianificando degli eventi per i suoi candidati: il 4 aprile alcuni dibattiti televisivi in New Hampshire, uno in South Carolina il 15 maggio, oltre al classico sondaggio di opinione Ames previsto nell’Iowa l’11 agosto. Fino ad allora la lista dei potenziali candidati continuerà ad essere accorciata dall’incapacità di molti politici di ottenere il necessario supporto popolare.
I candidati dei partiti verranno eletti durante le convention nazionali, alle quali parteciperanno delegati selezionati con modalità differenti. Tutto l’iter terminerà nel luglio del 2008, ma già entro le primarie di marzo sarà chiaro il nome del candidato. La convention dei democratici si terrà a Denver, in Colorado, dal 24 al 28 agosto 2008, mentre quella dei repubblicani si terrà a St. Paul, in Minnesota, dall’1 al 4 settembre. Fin qui i fatti, ora le speculazioni.

Chi si contende l’asinello
Se le elezioni si tenessero oggi, il prossimo presidente potrebbe essere o Hillary Clinton o Barak Obama. L’opposizione alla guerra in Iraq sta oscurando tutti gli altri argomenti. Obama ha dalla sua il vantaggio di essersi sempre opposto alla guerra, ma Hillary può trovare un modo per neutralizzare questo vantaggio. O forse no. Alcuni osservatori pensano che, a causa dello svantaggio su questo fronte, la signora Clinton sia già in grande difficoltà. A dire il vero la popolarità di Obama per ora è praticamente una creazione della stampa liberal, e prima o poi potrebbe commettere qualche grave errore. Ma se entro la fine di quest’anno apparirà ancora un candidato forte, sarà difficile per Hillary impedirgli di diventare “il” candidato.
I democratici si trovano in una posizione di maggior forza rispetto a sei anni fa, ma un miglioramento della situazione in Iraq potrebbe spostare l’attenzione su altri argomenti, rendendo possibile una vittoria repubblicana, sempre che (e qui dobbiamo mettere un grande “se”) i repubblicani sappiano rimanere uniti. L’unità dei repubblicani è infatti uno degli argomenti più imprevedibili di queste elezioni. La loro coalizione è a pezzi e l’unica emergenza che può ricompattarla è la paura dei democratici. Da un certo punto di vista lo speaker del Congresso, Nancy Pelosi, ha in mano il destino della coalizione repubblicana e l’identità dello stesso prossimo presidente. Se si comporterà con moderazione e convincerà i democratici del Congresso a seguirla, la coalizione repubblicana si autodistruggerà e dovrà essere ricostruita dalle fondamenta. In verità, alcuni strateghi repubblicani mi hanno spiegato che è proprio questa la strada per la ricostruzione del partito, ovvero la strada che segue la linea “purista” del conservatorismo, facendo piazza pulita dei neoconservatori e minimizzando l’importanza della destra cristiana. Per molti conservatori, infatti, la purezza della dottrina è più importante della vittoria politica.

E chi corre per l’elefantino
In una situazione del genere, è difficile immaginare come alcuni candidati repubblicani possano pensare di ottenere la nomination del partito. Guardando le cose con gli occhi del Comitato elettorale repubblicano: un uomo che vive con una coppia di gay dopo essersi diviso dalla terza moglie, predica il controllo sulle armi da fuoco e si è fatto filmare travestito da donna può vincere le primarie in South Carolina? È il caso di Rudy Giuliani. Dal canto suo, il senatore John McCain, che non è più un ragazzino (ha 70 anni), comincia a dimostrare tutta la sua età. Per di più sia Giuliani sia McCain sono tolleranti sul tema dell’immigrazione, caratteristica che rende difficile la vittoria di uno dei due alle primarie, dove impera la logica dell’uomo medio. Il senatore Sam Brownback, invece, è il classico cattolico risoluto, ma gli manca il carisma. Insomma, è noioso. E Mitt Romney soffre il fatto che la base evangelica pensa che il mormonismo sia un culto. Io poi terrei d’occhio Mike Huckabee, un ex predicatore che arriva dalla città natale di Bill Clinton, il migliore del gruppo in quanto a capacità oratoria. Ha perso molto peso e vuole «rendere l’America in forma e forte», un obiettivo che gli garantirebbe appeal sulle mamme delle aree suburbane. Gli altri candidati repubblicani sono pressoché sconosciuti (eccetto Newt Gingrich) e magari proprio per questo uno di loro nei prossimi mesi raggiungerà la testa della corsa alla candidatura.

La “questione Dio”
Se l’Iraq non resterà il solo tema chiave, altre due questioni sortiranno effetti sulle elezioni. Una è la “questione Dio”. Il candidato dell’asinello, cioè, dovrà semplicemente accettare più serenamente il ruolo della fede nella vita politica americana. In effetti l’anno scorso tutti i democrat che hanno ingaggiato consulenti specializzati su questo argomento hanno vinto le elezioni mid-term. In questo Obama è in vantaggio su Hillary, e questo rappresenta uno dei suoi maggiori punti di forza. Ho un amico che spera di poter unirsi alla campagna di Obama per spiegargli come si parla in “maniera cattolica”. Il principio dirimente, in questo caso, è che molti americani vogliono essere sicuri che la fede religiosa (intesa come fonte di valori e princìpi morali) entri a far parte del bagaglio ufficiale degli eletti. Eccetto che per i fondamentalisti, i singoli dettami della dottrina non sembrano contare così tanto.

Immigrazione e bugie
La seconda questione, l’immigrazione, è legata al tema dei valori morali. I democratici dovranno spingere per un ordinamento più aperto verso gli immigrati, che offra a chi è in America illegalmente la possibilità di sanare la propria posizione. E dovranno farne una questione di valori morali, biblici. Sul fronte repubblicano, invece, l’opposizione all’immigrazione (soprattutto messicana) è molto, molto forte ed è salita al rango di argomento di sicurezza nazionale. Ragion per cui difficilmente sarà un repubblicano “tollerante” ad aggiudicarsi la candidatura.
E la guerra al terrorismo? Il terrorismo conta, ma al contrario dell’attuale amministrazione la gente non crede più che gli interventi militari all’estero siano legati ad esso. È questa la vittima più pesante dell’invasione irachena. È il punto di forza di Obama: lui non ha mentito al popolo americano. O, almeno, non ancora. Se però scivolasse su una bugia perderebbe popolarità. Così l’inesperienza e la razza (in maniera politically correct) lo indebolirebbero, rendendo Hillary una candidata molto più forte.

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