Ho scoperto questo libro tre anni fa e mi è apparso subito come una folgorazione. Sotto forma di spy story, è una delle più belle storie d’amore che abbia mai letto. Forse perché non ha a che fare col possesso, ma col destino, non è la mano che coglie il fiore, ma il cuore che attende e — lo sapeva già Gozzano — le più belle sono «le rose che non colsi».
Nessuno vede le cose belle che tu vedi in me
C’è un motivo, in tutto questo: che ciò che si possiede di colpo diventa opaco, come sapeva Gide (o forse era qualche altro…). C’è l’Attesa che nella storia del popolo d’Israele non è tempo vuoto o perduto come nella nostra sciocca idiozia collettiva, ma il tempo più vero e proficuo perché significa la volontà di chi è padrone del tempo.
Ma c’è molto altro e molto di più in questo libro dall’incipit scintillante e dal ritmo perfetto, che ti afferma e non ti molla più. C’è l’amore per la musica di Mozart e l’amore del protagonista (agente segreto) per «il paese che servo», che è Israele, «i monti, le valli, la polvere, la disperazione, le strade, i sentieri». E tutti questi amori si fondono e si confondono in uno, insieme a quello di un altro personaggio — un evidente alter ego del protagonista — per «i popoli del Mediterraneo», tutti, a cominciare dai palestinesi per i quali l’agente segreto israeliano ha sentimenti struggenti come per un fratello perduto.
In tutto questo seducente intreccio di storie — perfettamente costruito — accade questo amore che sottointende una certezza: che c’è un disegno su ciascuno, che non siamo esseri abbandonati a un caso idiota, ma che l’attesa più profonda che abita il cuore corrisponde a una presenza reale nel mondo («da quando ho memoria di me, io ti ho cercata. Mi era chiaro che tu esistevi, ma non sapevo dove»), che in un momento del tempo non scelto da noi e con modalità che possono anche sembrare tremende, incontreremo. Per cui si tratta di “riconoscerla” quando ti attraversa il cammino.
“Riconoscere” è appunto il verbo usato di continuo. Lui si manifesta a lei con delle lettere, che riempie del suo amore appassionato e geloso, una presenza misteriosa e protettiva, che brama di vedere («nessuno vede le cose belle che tu vedi in me. Mi abitui a qualcosa che nessuno mi darà mai. Io voglio vederti»).
Lei (che si chiama, non a caso Thea, nome che insieme al riferimento a Dio allude a lei come a un doppio della moglie di lui, Lea) a sua volta gli scrive con questa intestazione: «Mio amico Sconociuto». È ovvio rammentare la nota poesia: «Uno Sconosciuto è mio amico…». Ed è inevitabile a questo punto sospettare che la storia che fa da sfondo al romanzo di questo straordinario scrittore ebreo, sia la prima di tutte le storie d’amore: quella fra Jahvè e il suo popolo.
Il nostro Agente nella storia
Esattamente con lo stesso amore appassionato, geloso e protettivo. Infatti nella Bibbia Dio parla al suo popolo come un uomo alla donna che ama. Anch’Egli per lungo tempo si manifesta solo con delle “lettere”, con la scrittura e quando a lungo tace lei gli scrive lettere imploranti: «non dubito del tuo amore, ma questo amore è al di sopra delle mie forze. Sono un po’ come la tua vedova! Tu non hai il diritto di morire e non hai il diritto di tacere. Dimmi cosa devo fare».
Una presenza, apparentemente così evanescente e fragile, che continuamente rischia di trasformarsi in un sogno, il quale alimenta nel destinatario la smania di riconoscere in questo o in quello il mittente di quelle lettere. Ma è una scrittura tutta protesa a preparare “l’incontro”. Tutto il racconto è una lunga marcia di avvicinamento all’incontro, al contatto, al riconoscimento. Come la storia d’Israele, mille volte tentato di dimenticare quello Sconosciuto che non arriva mai, ma incapace di cancellarlo davvero dalla memoria, forse perché «una figura fatta di parole e tempo è indistruttibile» e «nessuna realtà sarebbe stata in grado di sconfiggere un sogno». Anche perché quello Sconosciuto non è affatto un sogno e si manifesta tangibilmente, ma talora per l’attesa Thea è esausta e implora il Cielo: «dammi un segno… Dammi un segno, mio morto, dammi un segno. Non puoi continuare a trattarmi così».
Commenta lo scrittore: «ma gli agenti segreti, come Dio, mandano segni solo ai loro confidenti. Sono molto crudeli e anche infelici, a volte. Comunque, tacciono».
Franz Kafka, un inizio e un destino
Non è vero. In realtà il Nostro protagonista non è affatto crudele e brama di incontrare finalmente la donna che ama. Ma quando finalmente, dopo mille e mille rinvii, arriva il momento e lui va da lei, un attentato gli ruberà la vita e i due potranno solo vedersi da lontano, mentre lui muore e lei disperata allunga la mano per poterlo almeno sfiorare. Come nell’incisione di Picasso che il protagonista aveva appesa alla parete della sua stanza da bambino. In essa un minotauro, uomo con la testa di toro (un essere dunque con due nature) veniva ucciso e dagli spalti una donna si chinava per toccare la fronte dell’essere agonizzante. «Tra la mano tesa e la testa gigantesca era rimasta una piccola distanza e Aleksandr sapeva che se la mano avesse toccato la testa, il moribondo si sarebbe salvato». Da bambino, una sera, il protagonista contemplò per molto tempo quell’immagine prima di addormentarsi: «Aspettò a lungo, forse il miracolo sarebbe accaduto e la mano, nonostante tutto, avrebbe toccato la testa. Ma il miracolo non accadde e Aleksadr chiuse gli occhi».
Anche la sua fine fu così: «Stare svegli al centro della musica è impossibile» è «superiore alle forze di chiunque». Cioè vedere Dio e restare vivi è impossibile… O no? È possibile incontrare lo Sconosciuto iun questa vita?
Fra Thea e lo Sconosciuto il contatto non accade, per «una piccola distanza», ma che sembra incolmabile. Ed è inevitabile ricordare uno dei racconti di Kafka più grandi e struggenti, dove sta tutto il dramma dell’attesa di Israele. Nel Messaggio dell’imperatore un umile e insignificante suddito viene informato che l’imperatore in persona, in punto di morte, ha inviato a lui, proprio a lui, solo a lui, un messaggio. Ma il messaggero deve varcare monti e valli e fiumi e praterie e correre e correre e non riuscirà mai a colmare la distanza… E lui a sera scruta l’orizzonte struggendosi nell’attesa. Un riferimento che credo pertinente, visto che il protagonista de Il Minotauro sceglie come suo pseudonimo “Franz Kafka”.