Lady drago e quella domanda: «Ed io che sono?»

Di Benedetta Frigerio
01 Maggio 2016
L'uomo drago, l'uomo gatto, l'uomo bambina. Che succede? Cosa si vuole esprimere con questi interventi sul corpo? Intervista allo psicanalista Mario Binasco

32DB5C1300000578-0-image-a-6_1459844000405«Siamo in una società che vuole eliminare il dramma dell’io attraverso l’uso della tecnica che amputa e modifica il corpo personale e il corpo sociale». È all’interno di questo quadro che si può capire come mai, dopo decine di trasformazioni, all’età di 55 anni, l’ex dipendente di banca Richard Hernandez, convinto di essere una “lady drago”, ispirandosi al suo totem, il serpente a sonagli, si è fatto amputare orecchie e naso tatuandosi il corpo e inserendo due innesti corniferi sulla fronte. Prima di lui si era parlato di Dennis Avner, 54 anni, di Tonopah, Nevada, ex veterano della marina americana, che dopo interventi chirurgici di ogni tipo per riuscire a somigliare ad un gatto, si era suicidato. Ha fatto discutere anche il caso di Stefonknee Wolscht, padre di sette figli operato per diventare donna e poi comportarsi da bambina, adottato da una coppia di amici che lo ha accolto come una figlia nel nome del suo diritto a vivere come si sente.
Ne parliamo con Mario Binasco, psicanalista professore del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli Studi su Matrimonio e Famiglia, presso la Pontificia Università Lateranense.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Oltre a questi casi si moltiplicano le persone dipendenti dalla chirurgia estetica e le donne che cercano di trasformasi in vere e proprie Barbie, modificando i glutei, il seno, la vita e le labbra. Cosa spinge la società in questa ossessivo intervento sul corpo, in certi casi persino mostruoso?
Questi sono fenomeni che confermano che l’uomo è sempre in ricerca della sua identità, che è umana anche se si riveste di insegne totemiche animali: un’identità vissuta sempre nel rapporto con altri umani, un’identità a cui si cerca di aderire stabilmente, che implica dunque qualcosa a cui appartenere. Solo l’essere umano ha il problema dell’identità e infatti solo l’essere umano ha e dà i nomi. Gli animali avranno anche un’identità, ma la vivono senza saperne nulla, senza chiedersi: «Io che sono?». Noi sappiamo di avere un’identità, a partire dal fatto che abbiamo un nome: eppure la cerchiamo sempre, perché un essere umano non è mai totalmente riducibile a ciò che è, non è mai solo se stesso: e perfino per essere legato a se stesso (questo vuol dire identità) tende sempre ad aderire al legame con un altro che sta davanti a lui. È un bel paradosso: l’uomo trova la sua identità prima che in sé nel legame con un altro. Infatti, quando ci chiediamo chi siamo, solo per il fatto di porre la domanda la stiamo rivolgendo a qualcuno. Il leopardiano pastore errante dell’Asia, ad esempio, per porsi questa domanda deve rivolgersi alla luna e interrogarla: «Ed io che sono?». E anche la risposta non può che venire da un altro, da fuori, altrimenti non avremmo neanche la domanda. Giovanni Paolo II disse: «Famiglia diventa ciò che sei», sdoganando il detto nietzschiano «diventa ciò che sei», per dire del dramma dell’uomo che tende continuamente verso qualcosa che è già, eppure non è e non sa ancora. Ed è proprio nel corpo che si annodano le questioni legate all’identità. Ecco, credo che l’operazione della nostra società sia quella di voler eliminare questo dramma offrendo all’uomo di oggi, errante in tutt’altro senso perché non parla più con la luna ma ci va su, la possibilità di intervenire sul reale del corpo attraverso la tecnoscienza.

L’uomo che si è identificato con un drago ha però affermato che «io sono ciò che sono, io sono la mia creazione», proprio eliminando la possibilità dell’alterità.
Certo, perché ha voluto fare di sé un monumento, ha voluto “istituirsi” come drago. Però è evidente che lui non si è operato e riempito di tatuaggi, persino eliminando delle parti del suo corpo, per essere drago tra i draghi, per vivere tra i draghi. Il fatto che la sua azione di “cambiamento” sia rivolta all’esterno, e che questo signore voglia mostrarla al mondo attraverso le immagini, dice che sta cercando di affermarsi così di fronte a sé e a qualcuno. Che vantaggi gli permette la sua nuova “identità” corporea nel contatto con i suoi famigliari, nell’abbracciare la sua donna, i suoi figli? O forse comporta un sacrificio? Solo il fatto che dichiari ad un giornale che «io sono ciò che sono, io sono la mia creazione», descrive la necessità di essere presso qualcuno, altrimenti non avrebbe bisogno di dirlo. Persino quando affermiamo: «Sono finalmente me stesso», dicendolo, ammettiamo altro, facciamo un passo aldilà di noi stessi. Niente da obiettare all’invenzione di sé, ciascun essere umano inventa la sua vita e la fa diventare la sua identità. Il problema è se ti inventi facendotene qualcosa dell’essere e del reale che ti è dato, a cui ti sei trovato iscritto, oppure invece rifiutando più o meno radicalmente questo essere e questo reale. Dunque io gli chiederei: che cosa ti ha costretto a questo rifiuto, che cosa c’era di insopportabile nella tua condizione di essere umano? L’invenzione può essere libera, ma il rifiuto della realtà è molto poco libero.

Istintivamente, solo qualche anno fa la reazione del pubblico sarebbe stata unanime: «È una follia». Cosa è cambiato?
La follia è un effetto della libertà umana, perché parte da una negazione inconscia di una realtà da parte della libertà: è una libertà portata al limite, per cui nella follia siamo liberi da tutto, ma proprie per questo possiamo solo subire il ritorno nel reale di ciò che abbiamo rifiutato, cioè la nostra dipendenza inconscia dall’Altro e dal reale. La follia si desume perciò dal tipo di rapporto che uno ha con il reale, uno diretto, senza mediazioni simboliche o immaginarie, come si vede nell’allucinazione: in questo rapporto non sei più tu che vai verso il reale con i tuoi strumenti di significato e di senso, ma è il reale che ti viene contro, che ti si impone senza senso e senza chiederti il permesso. Nel delirio il reale si popola di cose ed eventi immaginari, che sono però più reali della realtà condivisa: il reale, privo di senso, non riesce più ad essere una casa per il soggetto. Ma questo rapporto folle è anche con la tua stessa realtà, te stesso, tanto da spingerti ad eliminare qualcosa di te, fino a mutilarti o ucciderti.

Questo come riguarda il corpo?
Nelle società passate ci si travestiva, ci si tatuava, ci si truccava e mascherava, come segno di appartenenza a un totem, un dio o un gruppo, ma era un’appartenenza simbolica, che dava un senso sociale al corpo. In questa appartenenza si rende visibile l’io, o l’anima come si diceva in passato; in tutte le civiltà il corpo è velato come segno del fatto che il corpo non è solo quella cosa reale che si vede, ma è ciò attraverso cui è il soggetto a rendersi visibile all’altro. Il corpo ri-vela il soggetto, non lo s-vela mai in maniera diretta né totale, perché «l’essenziale è invisibile agli occhi», come dice Saint-Exupéry. Qui ci sarebbe da fermarsi sul delirio contemporaneo della trasparenza e del “io non ho niente da nascondere”, ma glissiamo. Il corpo con le sue sembianze e parvenze, con i suoi marchi o rivestimenti chiede all’altro di poter evocare in lui desiderio, eros, amore: pensi alla suggestione e seduzione esercitata dall’orecchino del ritratto “La ragazza con l’orecchino di perla” di Vermeer. Un corpo ci dice anche che tipo di rapporto possiamo avere con il soggetto che lo presenta in un certo modo, dunque ha anche una funzione sociale. La divisa dell’esercito, ad esempio, ci dice molto su come comportarci con la persona che la porta, anche se non definisce completamente la sua identità. Con il Novecento ogni quadro simbolico condiviso della nostra società è saltato: i segni e le azioni umane non rimandano più a significati condivisi. E questo è fonte di disgregazione. Infatti, quando in un gruppo di uomini che convivono viene a mancare un altro sociale condiviso, che assegna significato alle azioni e segni a cui aderire, quando questo altro a cui si guarda per misurare il valore delle nostre azioni scompare e quando ogni valore è messo in discussione, dove possono guardare le persone per orientarsi e capire a cosa servono le cose e quindi anche il loro corpo e di come se ne può godere in modo umano? Gli unici fenomeni sociali di condivisione del valore delle sembianze corporee sono ormai le mode, anzi la moda. Se non ci sono più dei fini, resta solo questo in cui rifugiarsi per trovare un po’ di consistenza. In una tale debolezza si è poi inserita la tecnoscienza che ha permesso un passo ulteriore.

Ossia?
Quando la società aveva riferimenti condivisi a qualche “aldilà”, il corpo era in funzione di questi, perciò non chiedevi a una suora o una mamma di darti l’emozione estetica di una modella perfetta, ma di “indossare” il suo corpo per mostrare e servire altro. Con la negazione, consumatasi nel secondo Novecento, di questi riferimenti all’aldilà, è rimasta solo l’estetica fine a se stessa. Ma mentre fino a qualche tempo fa ci si limitava ad assumere parvenze dettate dalle mode estetiche, oggi, grazie alla tecnica, si agisce direttamente sul reale. L’anoressia diffusa a partire dalla metà dello scorso secolo, ad esempio, era già un sintomo e un effetto di questa inconsistenza identitaria, ma con la chirurgia estetica siamo arrivati all’amputazione del corpo, con effetti sulla psiche delle persone che possono essere molto traumatici. Qui sta l’aspetto di follia: la tecnica agisce direttamente sul reale del corpo al di fuori di ogni senso, quindi tende a creare condizioni di rapporto con la realtà tendenzialmente deliranti. Vedi quanti sviluppano momenti psicotici dopo operazioni di chirurgia plastica.

Sono due visioni della società completamente opposte. Come stabilire quale sia quella giusta?
Non so se possiamo scegliere, bisogna stare in questa realtà sociale guardando bene come funziona e a quali prove ci espone: e possiamo farlo solo a partire da quell’aldilà di cui parlavo. La saggezza millenaria dice che in ogni società che voglia organizzarsi occorre scegliere un significato, un compito a cui collaborare, che almeno a un certo livello sia riconosciuto e condiviso da tutti, altrimenti non è più una società umana, ma un campo di concentramento. A cosa si attacca un uomo che si chiede: «Ed io che sono?». Senza qualcuno o qualcosa che gli dica chi è e che c’è un significato oltre l’apparenza mendace delle cose, su che terreno potrà camminare? Gli resta solo un’alternativa: provare a cavarsela cercando di “istituirsi” in un godimento estetico fugace che renda inutile la domanda.

Che conseguenze sociali produce questa rivoluzione?
Bisognerebbe chiederlo ai soggetti in questione. Prima dicevo che la follia consiste nel vedere nella realtà qualcosa “in più” che si percepisce come persecutorio. L’uomo che sosteneva di essere un gatto si è ucciso ed è quindi difficile sapere cosa vivesse dentro di sé. Come dicevo prima, all’uomo che si dice un gatto o un drago chiederei: «Perché? Che bisogno c’è di intervenire così sul tuo corpo? Cosa non sopportavi di te? A chi pensi di piacere senza orecchi e senza naso? Non posso stabilire con certezza se sia folle senza averlo interrogato, pur in presenza di quell’indicatore che è l’intervento irreversibile sul reale del corpo. Il transessualismo è un esempio: la persona sente che l’organo che ha è di troppo, anzi che lo perseguita e lo elimina con la tecnica. Il limite tra la normalità (che esiste molto limitatamente) e la follia si pone fra un’estetica bizzarra, dove modifichi le tue parvenze e invece la mutilazione reale del corpo. Ma in fondo questo importa solo ai clinici appassionati alla struttura soggettiva umana: in ogni caso tutti dobbiamo vivere in modo umano con chiunque, folle o non folle che sia, che ci chiede di esistere per lui, di fare la parte della luna leopardiana a cui il pastore può rivolgere il suo monologo.

Si può dire che ciò che un tempo era considerato follia oggi è diritto?
Se il problema fosse il diritto all’autodeterminazione della persona, non saremmo qui a discutere. La gente si è sempre presa il diritto di suicidarsi, prendendoselo precisamente contro il mondo, contro la società, contro Dio, ecc. Ma perché allora si è voluto legalizzare l’eutanasia? Perché così si è tolto alla gente la facoltà di prenderselo quel diritto, compiendo un atto umano anche se al limite: il diritto è ora concesso, è dato, il che vuol dire che anche ammazzarti è obbedire al potere. Oggi il diritto è diventato la risposta a una domanda intima che è vietato porsi e porre: «Ed io che sono?». Si impedisce così che la verità della persona emerga. Il potere riconosce questi nuovi diritti per dare uno spazio di immunità al cittadino che è esente da obblighi, ma esente anche dal porsi e farsi porre domande sulla sua azione. Chi interroga la persona che ha abortito viene dipinto come crudele e sovversivo solo perché vuole dare voce al soggetto e non alla sua marionetta ideologica. Allo stesso modo chi vive una discordanza sessuale non può essere interrogato né tantomeno interrogare se stesso. Figurarsi chiedere aiuto. Anche l’idea del pentimento viene eliminata, perché metterebbe in crisi l’ordine costituito. La tecnica si inserisce proprio in questo disegno delirante, incidendo sul reale si pensa di controllare la persona eliminando per sempre il suo dramma sovversivo: «Ed io che sono?».

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