I poveri, gli esclusi della terra, i dimenticati d’obbligo di tutti i G8. A parole, sappiamo tutti chi sono: di fatto, invece no. Da una parte, i quasi due miliardi di esseri umani che vivono sotto i 200 dollari l’anno di reddito, africani e asiatici. Ma gli strumenti demoscopici interrogano anche i cittadini delle nazioni affluenti: e scopriamo così, ce lo ha rivelato la settimana scorsa l’Isae, che in Italia nell’anno 2000 la soglia di povertà soggettiva, definita considerando il reddito ritenuto necessario in media dalle famiglie monocomponenti, è risultato pari a 1 milione 875 mila lire al mese. Un anno prima, la soglia era ferma a 1 milione 700mila: e se in un anno si è alzata di quasi 200mila lire, tre volte il livello d’inflazione, è perché a contare, nel mondo sviluppato, nella definizione di “povertà’, è la risposta del tutto soggettiva alla domanda: «sono libero di vivere secondo i miei desideri?». Libertà che è più difficile realizzare per chi è già avanti con magri risultati nella vita lavorativa, che è negata per anziani e pensionati al minimo, ma che ai giovani può parlare la lingua della speranza. Per questo, dopo l’orgia di parole a vuoto – e di altro, purtroppo – risuonata nelle piazze di Genova contro il G8, fa un gran bene leggere le rapide “storie di giovani poveri” proposte qui di seguito. Che tagliano ogni erba retorica, e ci restituiscono immagini contrastanti: anche l’apparente contraddizione di ragazzi e ragazze più impegnati a sfruttare le nuove possibilità magari in contesti segnati da ben più pesanti difficoltà materiali, di quanto non capiti invece ai loro coetanei dei paesi avanzati, afflitti da una “sindrome di spaesamento” che ha radici culturali prima e più che spiegazioni di penuria pecuniaria. Non è il caso, mai, di indulgere in trionfalismi sulle “magnifiche sorti e progressive” dei tempi che si vivono. Ma il paradigma che nei paesi avanzati si è affermato negli ultimi 15 anni, diciamo dalla nascita della Microsoft di Bill Gates tanto per segnare una data, contiene potenzialità e insieme rischi che vanno compresi e governati, invece che mistificati e demonizzati. È il paradigma di un mondo economico dove non conta più solo la dimensione fisica, dell’accumulazione e dei consumi tangibili e materiali: ma che a questa dimensione ne affianca altre tre. La dimensione immateriale dei servizi dove convivono – insieme – la cibernetica e il Web insieme al no profit, la dimensione finanziaria che tra tutte è quella più globalizzata e che rende il mondo “uno” al di là di regimi politici e fedi religiose diversi e barriere nazionali sempre meno significative, e infine la dimensione che tra tutte è la più pericolosa: quella dei rendimenti finanziari ad alti multipli, che insieme ha portato alla più alta crescita del reddito non da lavoro nei paesi avanzati negli ultimi otto anni, e dalla cui disordinata frenata oggi rischiamo però di pagare il conto con una nuova recessione mondiale. Queste quattro dimensioni insieme definiscono la difficile modernità del nostro tempo. Basta però la seconda da sola, se avvicinata ai giovani per motivarli a dare scopo al proprio percorso formativo, per strapparli alla “mancanza di senso” che ne opprime a milioni, e ne spinge migliaia a tirare le pietre e magari a morire nelle piazze piazze. Ma per far questo occorrono buoni maestri, etiche individuali e civili solide. Chi crede che il capitalismo coi suoi “animal spirits” sia il trionfo dell’individualismo, cita solo una delle pagine più conosciute di Adam Smith: dimenticando che insegnava Etica, e scriveva nella pagina seguente che «in un mercato competitivo solo l’onestà è il comportamento che non distorce il prezzo e ne rende partecipe ai suoi benefici il massimo numero». Un ultimo invito. Non arrischio consigli ai credenti… Ma consiglierei, ai molti cristiani scettici che hanno preso – secondo me – un abbaglio sfilando insieme ai violenti di Genova, di leggere le pagine che Michael Novak ha scritto per spiegare che fede e mercato coesistono e si migliorano a vicenda. E di continuare con Matteo 20,12-16, versetto altrimenti noto come «e gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi», per comprendere come la ricchezza aborrita da Cristo non è quella dei beni materiali, ma l’orgoglio di sé che rende sordi agli altri e a Dio. Sono questi “i ricchi” che Maria, al quindicesimo versetto del Magnificat, dice che «Il Signore ha rimandato a mani vuote». Non quelli che dall’espansione delle opportunità possono dare oggi più lavoro e più libertà di quanto non sia mai avvenuto prima nel mondo “a una dimensione” che ci ha preceduto. Spiegarlo ai giovani di Genova, è la prima sfida per essere meno poveri: tutti.
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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Emanuele Boffi