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La parola inaudita di Gemma Calabresi

È stata fatta giustizia. No, è stata una vendetta. Poi l'intervista alla moglie del commissario assassinato negli anni 70 da Lc. Un'altra prospettiva

Emanuele Boffi
30/04/2021 - 3:00
Società
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Gemma e Mario Calabresi
Gemma e Mario Calabresi

Un po’ di rassegna stampa. Ieri tutti i giornali italiani parlavano degli arresti in Francia di 7 terroristi rossi. Oltre alle biografie dei sette, dei crimini compiuti e delle condanne subite dai latitanti, i lettori potevano trovare sui vari quotidiani tre diverse chiavi di lettura (più un imprevisto inaudito).

Giustizia è fatta

La prima chiave di lettura la potremmo sintetizzare così: giustizia è stata fatta. Si ricordava i tremendi delitti commessi, il dolore delle vittime, gli anni passati ad attendere che i sette pagassero per ciò che avevano fatto. Soprattutto si ricordava la “copertura” mediatica che molta intelligenza di sinistra aveva dato agli assassini, cercando sempre di giustificarli e proteggerli, dando la colpa al sistema e al clima di “quegli anni”.

Così i grandi giornali, dal Corriere a Repubblica alla Stampa. E, con più vigore, i quotidiani di centrodestra, da Libero, al Giornale, alla Verità.

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Gemma Calabresi ai funerali del marito, il commissario Luigi Calabresi
Gemma Calabresi ai funerali del marito, il commissario Luigi Calabresi

È una vendetta

La seconda chiave di lettura – con diverse sfumature – è più o meno riassumibile così: è stata una vendetta. Sul Foglio è apparso un commento di Adriano Sofri («li avete presi: e ora che ve ne fate?»), sul Riformista di Piero Sansonetti («una pura e semplice operazione di propaganda») e Paolo Persichetti («un processo senza fine e una punizione infinita non sono giustizia»), sul Manifesto di Tommaso di Francesco («ci si chiede infatti che cosa rappresenti realmente una giustizia che scatta ad orologeria ma si rivela una giustizia senza tempo, infinita e politica»).

Gemma Calabresi

Verità e giustizia

La terza chiave di lettura l’hanno fornita con tre diversi interventi Olga D’Antona (vedova del giuslavorista Massimo, ucciso dalle Br nel ’99), il ministro Marta Cartabia e Mario Calabresi, giornalista, figlio del commissario Luigi, assassinato nel 1972 da esponenti di Lotta continua.

La loro è una posizione più articolata rispetto alle prime due. Ha scritto ad esempio Olga D’antona sulla Stampa:

«Si può chiamare giustizia quella che fa giustizia dopo mezzo secolo? In cinquant’anni capitano molte cose. Di quei carnefici, delle persone che sono diventate dopo tanti anni vissuti da liberi cittadini, sappiamo poco. Avranno formato famiglie, cresciuto figli, si saranno costruiti una vita nuova. C’è sì soddisfazione per la fine di un’ingiustizia ma allo stesso tempo mi domando: è ancora giustizia? Si può ancora pensare alla finalità rieducativa della detenzione sancita dalla nostra Costituzione?».

Il ministro Cartabia ha detto che «non ci può essere riconciliazione senza verità», ma ha molto insistito sul fatto che ciò che ci deve animare «non è la sete di vendetta, ma sete di chiarezza e di reale possibilità di riconciliazione».

Tra gli arrestati c’è anche Giorgio Pietrostefani, condannato in quanto mandante dell’assassinio del commissario Calabresi. Il figlio Mario ha così commentato:

Oggi è stato ristabilito un principio fondamentale: non devono esistere zone franche per chi ha ucciso. La giustizia è stata finalmente rispettata. Ma non riesco a provare soddisfazione nel vedere una persona vecchia e malata in carcere dopo così tanto tempo #annidipiombo

— Mario Calabresi (@mariocalabresi) April 28, 2021

«Un gesto di clemenza»

Lo stesso Calabresi in un’intervista al Corriere ha raccontato il suo incontro con Bompressi a Parigi qualche anno fa, spiegando di non provare «livore o rancore nei suoi confronti».

«Non mi aspetto alcun autodafé. Ma credo che queste persone ci debbano qualcosa. Ci devono pezzi di verità. Sono uomini e donne che hanno partecipato a delitti che hanno segnato la storia di questo Paese. Ci mancano ancora dettagli, e soprattutto le loro voci per ricostruire quei fatti così tragici. Penso che dovrebbero assumersi le loro responsabilità».
E se lo facessero?
«Sarei il primo a chiedere un gesto di clemenza nei loro confronti. Credo che oggi raggiungere una verità definitiva abbia molto più valore che tenere quelle persone in galera per il resto della loro vita».

La parola inaudita: perdono

L’imprevisto è però venuto a galla grazie alle parole di Gemma Calabresi, moglie di Luigi, che ha rilasciato un’intervista al figlio Mario. Come si capisce, già ci troviamo di fronte a una caso eccezionale (il figlio, ex direttore di Repubblica, che intervista la madre sull’assassinio del padre). È tutto un po’ inusuale. È una circostanza intima eppure universale, una perla rara, un articolo da conservare. L’intervista – è il nostro consiglio – è da leggere e, come si dice in questi casi, “da ritagliare”. Vi si usa una parola inaudita, spericolata e rara, quasi “scandalosa” nella sua inattualità: perdono.

È però una parola che riesce a tenere dentro tutto, senza dover dimenticare una parte: c’è la storia del paese rivissuta dentro una storia familiare, la sua rielaborazione e anche il suggerimento – potente e cristiano – dell’unica via d’uscita che consenta di non soffocare nulla, di non censurare la verità e, al tempo stesso, di ottenere vera giustizia.

Dice Gemma Calabresi:

«Sarebbe il momento giusto per restituire un po’ di verità. Sarebbe importante che a questo punto delle loro vite (i colpevoli, ndr) trovassero finalmente un po’ di coraggio per darci quei tasselli mancanti al puzzle. Io ho fatto il mio cammino e li ho perdonati e sono in pace. Adesso sarebbe il loro turno».

Un cammino di fede

Non c’è rancore, non c’è risentimento. È qui l’inaudito: solo un perdono vissuto e sofferto è una possibilità di redenzione, in primis, per chi ha le mani sporche di sangue.

«Mario: Dove comincia invece la tua strada del perdono? Dico la tua perché, bisogna essere onesti, è un percorso soprattutto tuo. Tu hai cercato di insegnarlo a me, a Paolo e a Luigi. Diciamo che per noi però è stato più importante prendere da te l’idea che non si dovesse crescere nell’odio e nel rancore più che fare il cammino del perdono.
Gemma: Il mio è un cammino di fede e poi ti voglio raccontare una cosa: un giorno un mio alunno mi ha detto “Maestra, ma perché quando le persone muoiono diventano tutte brave?”.
Mario: Cioè son considerati tutti buoni.
Gemma: Esatto. Ho risposto: “è giusto così”, perché una persona ha fatto cose negative ma anche tante cose positive, ricordiamolo per le cose positive, per il buon esempio, per il suo affetto, per la capacità di amare gli altri, ognuno ha un suo cammino. E così ho pensato anche di queste persone responsabili della morte di Gigi. Posso io relegarle tutta la vita all’atto più brutto che probabilmente hanno compiuto? Forse sono stati dei bravi padri. Forse hanno aiutato gli altri. Forse hanno fatto… Questo non sta a me. Però loro non sono solo quella cosa lì, assassini, sono anche tante altre cose. Ecco, questo mi ha aiutato nel mio percorso di perdono».

Il compito di essere felici

Dove trova questa donna la forza per essere così? Per cercare di essere così ostinatamente felice? (c’è altro compito nella vita, se non questo? Essere felici) Ce lo dice Gemma Calabresi quando ci spiega che «il perdono non è una debolezza».

«Voglio lasciare a voi una testimonianza positiva della vita. Io vi dico una cosa: senz’altro è stata una vita pesante, ma sapete che non la cambierei? Perché è stata una vita intensa, ricca e piena di affetti, di amore, di gente che mi vuole bene. Eh, se io guardo gli altri, no, non mi cambierei. Qualche volta mi viene un po’ di rabbia quando vedo le persone anziane ancora insieme per mano, allora lì ho un attimo di debolezza, ma è bene così, è bella così. La mia vita comunque è stata bella».

Foto Ansa

Tags: adriano sofrimario calabresi
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