La morte di Alfie e la verità che non possiamo dimenticare

Di Roberto Colombo
02 Maggio 2018
Non è stata la malattia di cui soffriva la causa immediata del suo decesso. Da cristiani, occorre ricordarlo perché la carità non scivoli nel sentimentalismo



Di fronte alla morte, ancor più a quella di un innocente (i bambini al di sotto dei due anni lo sono per antonomasia, e hanno i loro santi protettori, della stessa età secondo il raccolto evangelico: i “Santi Innocenti” di cui la Chiesa fa memoria il 28 dicembre), la pietà umana chiede qualche minuto di levata nel silenzio e quella cristiana di raccoglimento nella preghiera. Prima di tutto, questo. E questo abbiamo fatto. Sia al di là della Manica, dove la morte di Alfie Evans si è consumata, e nell’Europa continentale che ha seguito, non meno di quella insulare, con trepidazione e dolore questa drammatica vicenda, sulla quale la fede in Cristo risorto getta una luce incomparabile nel mistero della morte innocente, quella di un bambino malato, che la rende preziosa agli occhi di Dio e a quelli dell’uomo.
Battezzato nella morte di Gesù, Alfie attende ora l’alba della Risurrezione, vera consolazione in extremis e in altissimi dei suoi genitori, al di là di ogni umana (e umanamente e cristianamente comprensibilissima) dolorosa delusione e amara riprensione per l’epilogo terreno della vita del loro unico figlio. Kate e Tom sono orgogliosamente figli della Chiesa, e sanno che essa si stringe fortemente attorno e li abbraccia. Come ha fatto personalmente papa Francesco quando li ha accolti a Santa Marta e come fa ora, nella realtà della comunione ecclesiale, ogni fedele. Un abbraccio che porta con sé i limiti, le incomprensioni, i condizionamenti e anche qualche errore e omissione (perché non dovremmo ammetterlo, con sincerità e coraggio, ora che “tutto è compiuto”?), come ogni abbraccio umano: solo Dio abbraccia l’uomo perfettamente, comprensivamente, incondizionatamente e veramente. Ma pur sempre l’abbraccio commosso e premuroso di un Santo Padre e di una Madre Chiesa a un papà e una mamma che piangono il loro amato bambino, cui ci uniamo noi tutti, che in questi mesi, attraverso le colonne di Tempi, abbiamo seguito il calvario di Alfie e la grande testimonianza di amore e di fede dei suoi genitori.
Anzitutto l’orazione nel silenzio dell’animo. Ma non solo. La carità spirituale della preghiera innalzata a Dio per qualcuno, come ogni forma autentica della carità, è tale sono in veritate. Come ricorda Benedetto XVI nella sua enciclica del 2009, «solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta. […] Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario» (Caritas in veritate, n. 3). E, in questo caso, la verità chiama in causa decisioni umane non estranee all’oggetto, al fine, alle circostanze e alle conseguenze dell’azione che ha portato alla morte Alfie.
Non possiamo dimenticare che la causa prossima, immediata della sua morte non è stata la malattia di cui soffriva. Questa è stata la causa patologica, rilevante per la grave condizione fisica in cui versava, ma non ultimamente determinante rispetto al tempo del decesso di Alfie. Una malattia che la prognosi dei medici dell’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool e di altri specialisti europei consultati riconosceva come inguaribile e neurodegenerativamente mortale, ma – come ogni malattia inguaribile – certo non tale da rendere incurabile né inaccompagnabile fino all’ultimo istante il piccolo malato, secondo la buona pratica clinica della vera palliazione pediatrica, resa disponibile, tra l’altro, dai medici del Bambino Gesù e di altri ospedali. Una malattia, dalla diagnosi molecolare precisa ancora in attesa di essere approfondita per spiegarne il quadro clinico, che avrebbe condotto il bambino alla morte secondo l’imperscrutabile disegno di Dio e i tempi della patologia, ma nel decorso della quale è però intervenuto un protocollo sanitario omissivo, predeterminato e avvallato giurisdizionalmente. Questo protocollo, applicato ostinatamente e ad litteram, sospendendo un supporto vitale essenziale ha alterato il delicato equilibrio fisiopatologico di Alfie e la già compromessa capacità del suo corpo di rispondere a condizioni di stress metabolico. Un equilibrio e una capacità di risposta dell’organismo defedato che hanno dovuto affrontare una carenza di ossigeno, di acqua, di elettroliti e di nutrienti per molte ore. Il corpo del forte e coraggioso piccolo malato ha reagito attraverso un respiro autonomo che, alla fine, è stato il suo ultimo respiro per pochi giorni.
Ma la sacralità, la dignità e il valore della vita di un bambino, come di un adulto o di un anziano, non è legata agli anni, ai mesi o ai giorni della sua esistenza terrena. È inscritta nell’eternità. E dinnanzi agli occhi dell’Eterno stanno gli atti di coloro che accompagnano, difendono e promuovono la vita umana malata e fragile, così come quelli di quanti la abbandonano, la feriscono e la squalificano come inutile. A Dio, a Lui solo, lasciamo il giudizio ultimo, che guarda con traboccante misericordia e pienezza di verità la vita dell’uomo e il bene e il male che egli compie. Noi siamo chiamati a pregare per la conversione dei cuori e delle coscienze di tutti, anzitutto dei nostri, e a lavorare con tenacia e senza timore umano per la (ri)costruzione di una “cultura della vita” e l’allontanamento della “cultura della morte” in Europa e nel mondo. Due compiti, questi, cui i cristiani non possono sottrarsi nel tempo presente.
Foto Ansa

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