Terra di nessuno
La mia reclusione con Bob Dylan
Articolo tratto dal numero di maggio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Mai avrei immaginato di dover stare due mesi chiusa in casa, mai mi era successo di sentirmi prigioniera. Questo guardarci per strada in silenzio e con un po’ di sospetto, al di sopra delle mascherine, e i tavolini dei caffè all’aperto ritirati come per un’alluvione. Mai avrei pensato di avere paura a uscire, a mezzanotte, in questa zona densa di movida, e ora deserta. Detestavo i parcheggi in seconda fila, il casino, le birre in frantumi sul marciapiede, la mattina. Eppure quanto vorrei ritrovare ora la movida di via Pier della Francesca, già il giovedì sera, con le ragazze oscillanti su tacchi 12 che non sanno portare. Perché anche quella era Milano, e era vita, e questo buio e vuoto per le strade la sera invece non lo era.
Ma, nell’enclave della mia vecchia casa, confesso di non essere stata così male. C’era mio marito, e una figlia che ancora non riesco a guardare che come una bambina. C’era il mio fedele alter ego canino, e i gatti, i due rossi e un terzo nuovo, un tigrino con grandi occhi gialli lucenti nella notte. Insomma, la grande casa era popolata abbastanza perché non mi sentissi sola. Ma quando ripenserò al tempo del lockdown con Caterina e Mario, e alle riunioni in smart working, e ai gatti pigri sui divani, la colonna sonora sarà una vecchia canzone di Dylan, che ascolto e riascolto all’infinito.
Series of Dreams, si chiama, è del 1989. La voce di Dylan racconta una vita intera. Nelle prime immagini del video è giovanissimo, un guerriero che si dipinge la faccia di segni per sembrare più cattivo. (Un po’ come facevo io a vent’anni, davanti allo specchio, quando mi truccavo di nero pesante gli occhi). Poi ci sono chitarre, come nel liceo okkupato dove i compagni cantavano, e treni, finestrini di treni in cui i paesi corrono – anche io quanti ne ho presi, di treni. Nel finestrino di Dylan passa una grande costruzione di acciaio, quasi un gigantesco vecchio complesso industriale. Un labirinto, un dinosauro arrugginito. Allegoria, di cosa? Di qualcosa che so eppure non distinguo, come in un sogno che, al risveglio, scolorisce; e se cerchi di riafferrarlo scompare.
Just thinking of a series of dreams, canta Dylan, «stavo solo pensando a dei sogni». E marciapiedi di città dove forse anch’ io sono stata, e scale che mi pare di conoscere, e quel continuo accendere sigarette e aspirare a fondo, che quando avevo vent’anni era fra noi respiro collettivo della giornata.
Poi nel video lui invecchia, smagrisce il viso, affiora l’asprezza di ragazzo ebreo mezzo ucraino e mezzo lituano, i cui genitori grazie a Dio emigrarono in America in tempo. (E in certe note che escono roche dalla gola penso che forse era così, la voce di Giobbe).
Attorno il gran silenzio di Milano, attonita in questa sera del 3 maggio: saprà, sapremo ripartire? E io che mi conforto ascoltando in loop una canzone, ninna nanna e insieme preghiera. Ascoltate:
«Thinking of a series of dreams/ Where the time and the tempo fly/ And there’s no exit in any direction/ ’Cept the one that you can’t see with your eyes». (Pensavo a una serie di sogni, dove il tempo e il ritmo volano, e non c’è uscita in nessuna direzione, eccetto una che non vedi con i tuoi occhi).
L’ultima immagine del video è una macchina da scrivere, di quelle su cui ho cominciato a lavorare anche io, con i tasti che imprimevano sulla carta caratteri neri e non era come sul pc, non li potevi eliminare. Tasti su cui, giovane cronista in una redazione fumosa, battevo piccole storie terribili di periferia, di pusher giustiziati, e vecchie sole ammazzate per due lire.
Mi guardo indietro nel silenzio del lockdown e mi pare che sì, è stata tutta una serie di sogni. Poveri o meschini o splendidi, ma sogni, inanellati negli anni: «Dove il tempo e il ritmo volano, e non c’è uscita in nessuna direzione, eccetto una che non vedi con i tuoi occhi».
Nessuna direzione, eccetto una che non vedi con i tuoi occhi. E che è l’unica vera. A sessant’anni anni comincio ad amarla. Oltre ogni sogno, il porto, ora non so come ne sono certa, è in quel Dio che negavo prima e poi ignoravo, distratta.
E comincio ad amare il tempo che mi spinge, come una corrente di fiume, verso il mio approdo.
Foto pxhere.com
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