La maestà dei disgraziati

Di Caterina Giojelli
14 Maggio 2021
Cosa ci dice nell’era del Covid l’epopea della Sacra Famiglia. Un ospizio per orfani, «pazzoidi» e inabili delle campagne che tenne testa a metropoli, gerarchi, epidemie. Facendo di carità cristiana una formidabile impresa laica e sussidiaria
Attività di gruppo con i disabili in un locale della Fondazione Sacra Famiglia
Attività di gruppo con gli ospiti della Fondazione Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone

«La Divina Provvidenza non fa mai bancarotta. […] Essa manda i malati, i ciechi, i sordomuti, gli epilettici, e con loro manda anche di che mantenerli. […] Ora non vi è più niente, ora vi è necessità, dunque la Divina Provvidenza provvederà». (Don Domenico Pogliani)

In principio c’era il santo e c’erano i «pazzi tranquilli». Erano 18, vivevano con 37 «paralitici», 57 «vecchi impotenti», 17 «ciechi», 25 «amputati e rachitici», 21 «sordo-muti», 16 «pellagrosi», 41 «epilettici», 72 «idioti e semi idioti». Don Domenico Pogliani, il santo – se ci è concesso chiamarlo tale, anche se la causa di beatificazione è ancora in corso, abbandonato com’era a una Presenza che superava ogni possibilità della storia –, li aveva registrati così nel bollettino del 1910, quegli amatissimi 304 «disgraziati» ricoverati nel suo “Ospizio Sacra Famiglia per incurabili della campagna”, edificato a Cesano Boscone appena 14 anni prima, 1 giugno 1896. Un borgo di campagna, 1.300 abitanti, quasi tutti contadini: è lì che la diocesi di Milano aveva pensato di mandare uno dei sacerdoti più colti e attivi del Duomo, arrivato ai 50 anni con vari acciacchi e il titolo di monsignore.

Pensavano di pensionarlo così, in salute e nella pace agreste. Invece il prevosto fece la rivoluzione ambrosiana e insieme a un’opera che oggi compie 125 anni e assiste oltre 12 mila fragilissimi in 23 sedi in tre regioni, s’inventò la sussidiarietà come Dio comanda: a che servivasuonare le campane quando decine di orfani, inabili al lavoro agricolo, mutilati, vecchietti, «deficienti» e «pazzoidi» vivevano dispersi tra stalle e cascinali dimenticati dalla grande metropoli?

Foto d'archivio di attività ricreative alla Fondazione Sacra Famiglia
Attività ricreative (foto Fondazione Istituto Sacra Famiglia)

Convinto che la Chiesa dovesse arrivare là dove società e Stato non sarebbero mai arrivati per trarre in salvo gli ultimi da una vita «che non è vita, ma lenta agonia», traducendo l’esperienza di Giuseppe Cottolengo nella campagna milanese, il prevosto bussò alla porta della signora  Maria Monegherio, ricca padrona di case e terre a Cesano. «Lei penserà ai bambini e io ai vecchi», s’immaginò il sacerdote convincendo l’angelo benefico a offrire denaro per tirare su un asilo per orfani e figli dei contadini nonché un terreno sul quale edificare «un ricovero di poveri cronici, scemi, ciechi» eccetera.

Ci mise del suo, Pogliani: all’inizio la casa parrocchiale per accogliere i primi disgraziati, poi tutto quello che aveva, 20 mila lire, ed esortò Milano, clero e laici, a fare lo stesso. Chiese una mano alle suore di Maria Bambina e di Maria Consolatrice e, poi, ai luminari dei manicomi, degli istituti per ciechi, a istituzioni e benefattori (che bellezza leggere le lettere che il sacerdote inviò loro, tutte pubblicate nel bel libro Super omnia charitas scritto per Àncora da Enrico Palumbo). A chiunque don Pogliani domandò aiuto per trovare una cornice giuridica a un’opera che stava raccogliendo “ricoverati” da ogni dove (alla fine della Prima guerra mondiale gli ospiti erano 600, nel 1955 quasi 3.500). Così si addentrò in una risposta al bisogno che il suo successore, monsignor Luigi Moneta, descrive così:

«È difficile trovare una persona che non possa proprio far nulla (…). Vi sono dei giovani affetti da mal caduco (l’epilessia, ndr) che possono lavorare quando non sono colpiti dal male; dei mutilati, dei deficienti, dei pazzoidi che possono fare qualche cosa e sarebbe delitto lasciarli tutto il giorno inerti. Per questo nel nostro Ospizio vi sono le officine di falegname, sarto, calzolaio, fabbro e maglieria, vi sono i muratori, i materassai, gli scalpellini, v’è la macelleria, il panificio, il pastificio, il mulino, nonché un largo perticato di terreno dove i nostri ricoverati possono occuparsi in opere agricole; v’è la stalla con le mucche, un cavallo ed un asino che lavorano e… fanno lavorare».

Altro che lavoretti, l’opera diede ai derelitti mestiere, e poi scuola, vacanze, maestà: lo fece professionalizzando la cura in senso medico, psicologico, educativo e lavorativo, senza dimenticare ciò che lo Stato non avrebbe mai riconosciuto necessario. Certo, ci voleva il carisma del santo, l’angelo benefico. «Ma perché io?», chiese stupito don Marco Bove quando nel 2017 l’arcivescovo Angelo Scola lo chiamò alla guida di un’opera ormai evoluta in Fondazione a gestione prevalentemente laicale.

Il presidente don Marco Bove con un ospite della Fondazione Sacra Famiglia
Il presidente don Marco Bove con un ospite (foto Fondazione Istituto Sacra Famiglia)
Giovani ospiti della Fondazione Sacra Famiglia a passeggio con una volontaria
Passeggiata di alcuni giovani ospiti con una volontaria (foto Fondazione Istituto Sacra Famiglia)

Bove era assistente spirituale nazionale di Fede e Luce, una esperienza enorme nel campo della disabilità al seguito del movimento di Jean Vanier, «ma non avevo alcuna esperienza amministrativa. Risposero che si era pensato a me proprio per questo», spiega a Tempi il presidente della Fondazione Sacra Famiglia. «Non per fare i conti, bensì per non perdere l’identità di don Domenico, il motto paolino “Super Omnia Charitas”. Cioè vicinanza, amicizia e relazione insieme a cura e assistenza, un concetto molto moderno per l’epoca». L’opera ha aperto le porte a chiunque bussasse nel secolo breve e continua ad aprirle in pandemia: «Neanche Pogliani ebbe vita facile quando nel 1918 infuriava la spagnola e arrivavano gli orfani di guerra. Durante l’occupazione tedesca arrivarono anche 40 sacerdoti: il cardinale Schuster ottenne dai gerarchi il domicilio coatto in sostituzione della pena detentiva del carcere».

Amatissimi incoscienti e deformi

I giornali amano ricordare che pure Silvio Berlusconi scontò qui la pena per la frode fiscale Mediaset, ciò che non ricordano mai è che quell’apostolato di bene seppe tener testa a gerarchi ed epidemie, ma anche ai luminari della salute e cronisti che nella “famiglia” di Cesano non videro per decenni altro che «incoscienti e deformi», «vite per cui il tempo non aprirà nessun orizzonte davanti». Così un giornalista di Italia negli anni Trenta scrisse degli storpi, orfani e pazzi di Cesano:

«Singolare villaggio, questo, dove si ignorano però i regolamenti “penali” e dove non esiste nemmeno una cella ed un corpo di “polizia”. Insurrezione e indiscipline, qui, non si conoscono. Un giorno un funzionario ebbe ad esprimere la sua meraviglia per questo strano sistema di ignorare i “modi forti”: “Ma non avete nemmeno una cella per la segregazione?”. “Nossignore, e non ne vogliamo”, rispose il direttore dell’istituto monsignor Moneta. “Ma come fate?”. Come si fa a far senza regolamenti di disciplina, come è possibile non avere una cella lo spiega la bontà materna delle suore di Maria Bambina che è vigile e pronta sempre, lo spiega il sorriso consolato e consolante di queste pie assistenti che sono le mamme di tutti».

Questa carità che non conobbe incertezze verso tutte le «ostie immolate» – così le definì Schuster in visita all’ospizio – attraversò la storia. Seppe intercettare i bisogni dei figli delle epidemie, delle guerre, della crisi, aprire al laicato, fronteggiare gli attacchi della sinistra extraparlamentare negli anni Settanta che accusava l’opera di sfruttare il “proletariato emarginato” nei laboratori artigianali o di fare ostruzionismo all’approvazione del divorzio. 

Foto di archivio del laboratorio artigianale di calzoleria della Fondazione Sacra Famiglia
Il laboratorio artigianale di calzoleria (foto Fondazione Istituto Sacra Famiglia)

Rischiò anche l’estinzione quale “ente inutile” (il decreto 616 del 1977 definiva come tali a priori tutte le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza), intraprese il cammino che la portò a Fondazione e insieme alla storia dei malati fece anche quella della medicina: il Covid si è portato via a dicembre il professor Lucio Moderato, direttore dei servizi innovativi per l’autismo della Fondazione, tra i massimi esperti mondiali del disturbo, padre del modello Superability e di Blu Home, un progetto unico in Europa per seguire in appartamenti “didattici” i genitori alle prese con figli autistici (700 quelli seguiti oggi dalla Sacra Famiglia).

L’equivoco statalista

Qual è il tema allora di oggi, a 125 anni dalla fondazione, 100 dalla morte di don Pogliani? Sempre carità e popolo. Difficile ricordarlo, ora che carità è diventato un tema di sostenibilità economica, che le tariffe socio-sanitarie sono ferme da 15 anni e all’opera è riconosciuta la sola dignità di un “erogatore di servizi”. Ma, dice don Bove, «la percezione di cosa sia la vita, di un fine buono nonostante la disabiltà, la malattia, una continuità e fedeltà stabile a un cammino a cui appartenere resta il sale della sussidiarietà. E il pane del volontario: sono 1.300 quelli che il Covid ha lasciato fuori dalla Sacra Famiglia, seminando malati e ristori utili forse a coprire metà delle perdite, 1.300 che con specialisti ed educatori rappresentano quel laicato che si è fatto compagno dei sempre più ridotti protagonisti religiosi della nostra storia, suore, ancelle della Divina Provvidenza».

Enormi sono gli investimenti che attendono l’opera nei prossimi anni per rispondere ai bisogni dei nuovi “derelitti” e che oggi come allora nessun ente pubblico pagherà, 600-700 mila euro solo i costi dei laboratori ogni anno – e Dio benedica il 5 per mille, le campagne fondi, i lasciti dei benefattori. Ma questo senso del popolo destato dalla pietà del prossimo tanto da incidere nella storia, fin quando potrà continuare a compiersi in opera se questa è ridotta a mera erogazione di servizio? Non rischia la dura legge del distanziamento di confermare l’orrido equivoco statalista per cui cura non è che tutela della salute, cioè null’altro che vitto, alloggio, terapia? 

Paola vuole i suoi cari, non i device

Giovanna racconta a Tempi la storia della sua gemellaPaola che è entrata nella Sacra Famiglia nel 1975, otto anni dopo essere venuta alla luce asfittica. «Mio padre morì pochi anni dopo, mia madre restò sola con due piccole e riuscì a comprendere la gravità della situazione di mia sorella solo dopo una visita in Germania: Paola, in preda a un grave ritardo mentale, tetraparesi spastica, tratti di autismo e continue crisi epilettiche, aveva bisogno di assistenza h24. Ma nessuno a Milano volle accoglierla: nessuno, tranne la Sacra Famiglia. Era il 1975. Non la lasciammo mai, ogni weekend la portavamo a casa, ogni settimana eravano a Cesano Boscone. Io giocavo con i bambini della mia età, lei compiva i suoi minuscoli giganteschi passi, come mangiare da sola seppure con un piatto e cucchiaio speciale. Lei è diventava il nostro focolare, la Sacra Famiglia la nostra famiglia. Mia madre fondò insieme a un’altra coppia di sposi il comitato parenti; sacerdoti, medici, volontari ed educatori divennero testimoni umani di dedizione e pazienza nel destino di tutti noi. Poi arrivò il Covid».

Uscita dal centro diurno disabili della Fondazione Sacra Famiglia
L’uscita dal centro diurno per i disabili a Cesano Boscone (foto Fondazione Istituto Sacra Famiglia)

Paola non è mai riuscita a capire che sua sorella e sua mamma Rossella le parlavano attraverso un device. Ha capito solo che non venivano più ogni settimana, bensì una volta ogni eternità. Nessun volontario è più venuto a portarla al bar a mangiare patatine e dare positività al suo tempo: un giorno i suoi medici hanno iniziato a parlarle attraverso maschere e guanti. Dove erano i suoi cari, i suoi amici? La Messa, i recital alle feste comandate organizzati dai frati? Arrivavano i vaccini, la Fondazione si organizzava per mettere in sicurezza tutti, per non lasciare indietro nulla. Ma dove erano finiti, loro, gli altri, il senso del suo vivere? 

Come la spagnola, la guerra, la crisi, il Covid e la paura del Covid erano entrati nella cittadella della carità, la casa sua e di 1.700 ricoverati, duemila dipendenti, 12 mila assistiti. Ecco perché continuare a raccontare e sostenere la Sacra Famiglia, casa di un popolo che vuole incidere nella storia e nella comunità umana, e che la carità in atto non abbia fine, oggi come cent’anni fa, quando un santo si mise al seguito di pazzi tranquilli, pellagrosi, vecchi impotenti per salvarli, tanti dubbi, pochissimi i mezzi, la sola certezza che “Super Omnia Charitas”. Come diceva don Pogliani, «una voce interna mi dice che questa opera non fallirà ed avrà la benedizione del Signore che ama i suoi poveri, che vuole mostrare la materna bontà della sua chiesa, o anche nei bisogni corporali dell’uomo. Questa voce interna è solo frutto della mia brama, od è probabile che venga dal Signore?».

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.