Lettere al direttore
La certezza di Aletti e il “Ruini” che non c’è
Il 15 agosto, giorno dell’Assunta, è salito in Cielo l’amico Leandro Aletti, stimato da tanti, anche da molti che non condividevano le sue idee e, soprattutto, il suo modo di difenderle. Sì, perché Aletti era un ginecologo contro l’aborto e non sarebbe una gran notizia, se non fosse per un ‘particolare’ fuori moda. Aletti si batteva per i suoi principi fino a rimetterci in reputazione, soldi e carriera, finendo spesso sui giornali e nelle aule giudiziarie per la sua ostinazione a sostenere quelli che riteneva valori non negoziabili contro i presunti diritti civili.
Ma di questo hanno scritto altri su questo giornale. Posso solo aggiungere una testimonianza personale.
Ho frequentato poco Leandro Aletti detto Leo. Eppure l’ho sempre sentito fratello, essendo entrambi cresciuti alla scuola di don Giussani, nostro maestro nella fede e nella ricerca del cambiamento di sé e del mondo: entrambi certi di non essere soli, di avere amici che meritano fiducia e stima. Una certezza morale che il mondo non capisce, ormai orfano dei maestri di un tempo ed in balia – senza alcun travaglio – del Travaglio di turno.
Nel 2012 finisco anch’io su tutti i giornali, come esito di un avviso di garanzia e di una lettera anonima alla Procura di Milano. I presunti reati riguarderebbero la mia gestione di un istituto di accoglienza per ragazzi abbandonati.
Non ho ancora finito di scorrere i giornali che mi chiamano al telefono: è Aletti, che vuole esprimermi tutta la sua vicinanza. Non ha bisogno di spiegazioni o della mia versione dei fatti.
È certo che sia tutta una montatura perché è certo di me.
Non ha bisogno dei due anni successivi di indagini sul mio conto (anche bancario) per scoprire che non avevo preso un euro.
E i cattolici di oggi? Sono ormai una minoranza, frammentata a sua volta in gruppi di individui senza unità diffusa e stima reciproca.
Eppure, resiste alla cultura dominante chi guarda a figure come Leandro Aletti, o come Luigi Amicone, compianto fondatore di Tempi: testimoni mai abbastanza additati ad esempio, da vivi.
E questa è una grave responsabilità di coloro che guidano la comunità cristiana, che spesso – all’opposto – mal sopportano lo spirito anarchico dei suoi figli più liberi e più creativi: per poi celebrarli da morti assieme al popolo che si era già stretto attorno a loro.
Valter Izzo
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Caro direttore, avvicinandosi la data delle elezioni politiche, è stato riaperto il tema della irrilevanza dei cattolici, che, comunque, costituisce un dato di fatto quasi ovvio, come sono ovvie (e parziali) le considerazioni scritte da chi ha aperto questa tematica.
È strano che essa venga rilanciata puntualmente in occasioni di appuntamenti politici. “Strano”, perché questa irrilevanza non è solo “politica”, ma, purtroppo, investe quasi tutti gli aspetti della nostra convivenza. Esite, infatti, una irrilevanza a livello sociale visto che i cattolici hanno perso il “fuoco” che caratterizza tutti i grandi santi e lo stesso Gesù (Santa Caterina da Siena auspicava che noi cristiani ritornassimo ad avere tale “fuoco” per ravvivare tutta Italia e la liturgia di domenica scorsa ci proponeva un passo in cui anche Gesù si riferiva al fuoco). Troppi cristiani hanno perso questo “fuoco” e si sono ridotti ad essere dei piccoli borghesi moralisti.
Esiste una spaventosa irrilevanza culturale e artistica, avendo lasciato il dominio di tale area ad esponenti per lo più di sinistra e avendo rinunciato ad esprimere giudizi autonomi e originali dettati dalla nostra fede. Sempre più difficile trovare uomini di cultura alla Péguy ed anche se ci sono vengono silenziati dalla cultura dominante. E dal punto di vista artistico, basti vedere l’orrore estetico di tante chiese “moderne”. Esiste una paurosa irrilevanza nella comunicazione (Tempi costituisce una miracolosa eccezione), visto che la quasi totalità dei media cattolici sono alla ricerca ossessionata di essere il più vicini possibile alla comunicazione dettata dai grandi poteri del “pensiero unico”, con gender annesso. I cattolici sono meno irrilevanti nelle opere di solidarietà, anche perché servono a rimediare ai disastri compiuti dal potere, ma corrono il grande pericolo di ridurre le loro opere a ciò che “anche i pagani fanno”, mentre l’inno alla carità di san Paolo ci dice che la carità stessa è ben altra cosa.
Ma perché siamo diventati così irrilevanti e, ripeto, non solo in politica? Perché, a mio parere, non partiamo più dalla esperienza di fede in Gesù Cristo. Siamo irrilevanti, perché abbiamo finito con il rendere insignificante la nostra fede e ci siamo affidati alle analisi (pur necessarie) sociologiche e psicologiche, di cui, però, sono maestri indiscussi gli intellettuali del “mondo”, che finiscono con il dettare la “linea” anche ai cattolici, che hanno così perso la loro originalità. Originalità che non nasce da una presunzione, ma dalla constatazione che il Dio fattosi uomo crea in noi una “creatura nuova” ed un popolo “nuovo”, che dovrebbe dare origine ad una cultura “nuova”, come fecero i Padri della Chiesa, che diedero un significato “nuovo” a tutta la storia umana (anche quella pagana), invece di inginocchiarsi di fronte al potere dell’imperatore di turno ed alla cultura “vecchia”. Per tornare ad essere “rilevanti” dovremmo avere il coraggio di ripartire dalla nostra fede in Cristo, facendone valere il fattore sorgivo che illumina ogni attività umana, compresa la politica.
Precisato che “l’irrilevanza” non riguarda solo la politica, probabilmente essa è aumentata in questo compito particolare ma essenziale per la nostra pacifica convivenza dal fatto che i “cattolici” impegnati in politica si ritrovano in partiti diversi e, spesso, molto antagonisti (il che non è certo l’ideale, ma un dato di cui prendere atto). Questo dato di fatto amplifica le diversità e le differenze, facendo dimenticare che i cattolici in quanto tali hanno fattori di unità ben più rilevanti e decisivi rispetto alle differenze delle appartenenze partitiche. Li unisce sorgivamente e ontologicamente il battesimo, li unisce il fatto di appartenere ad uno stesso popolo e cioè al “popolo di Dio” come si è espresso il Concilio Vaticano II, li unisce una stessa dottrina circa le verità fondamentali della vita e della morte dell’uomo e della donna, li unisce, in particolare, la dottrina sociale della Chiesa che indica le direzioni anche dell’impegno politico. Insomma, se si parte dal punto di vista della fede in Cristo e nella Chiesa, sono molti di più i fattori esistenziali che uniscono i cattolici, qualunque attività svolgano, rispetto a quelli che li differenziano. Ma allora, che fare? Non basta prendere atto di una situazione di fatto, magari per lamentarsene sterilmente oppure (il che è più grave) per difendere acriticamente la propria “parte”. Occorrerebbe uno scatto “in altum”, che probabilmente necessita di qualche carisma particolare che lo provochi. Ma intanto qualcosa si potrebbe fare.
Proprio in nome di tutti i fattori che rendono comunque “uniti” i cattolici anche quando svolgono attività politica, la Comunità cristiana dovrebbe convocare e riunire tutti i cattolici che lavorano in questo impegno di carità (così è stato autorevolmente definito) in un “luogo” nel quale, innanzi tutto, ribadire i fondamentali aspetti dell’appartenenza ad un’unica esperienza di fede e, poi, indicare quei punti che la stessa comunità cristiana ritiene indispensabili per il bene comune. Per fare un esempio, segnalare a tutti (proprio tutti) i criteri cristiani con cui affrontare i problemi derivanti dall’immigrazione, dalla difesa della vita in ogni momento dell’esistenza umana, dalle difficoltà delle famiglie, dalla scuola e dall’educazione più in generale, dalla “laicità” dello Stato, messa in pericolo dalla volontà di imporre a tutti la cultura gender. I politici di fede cattolica, allora, saprebbero che non ci si può occupare dell’immigrazione e non della vita e viceversa. Perchè TUTTI i cattolici non dovrebbero avere a cuore, con lo stesso impegno, i problemi degli immigrati e quelli relativi all’antropologia? Sto pensando ad un “luogo” assolutamente prepolitico, ma nel quale la Chiesa si assume la responsabilità di non lasciare soli i politici cattolici nelle loro decisioni (spesso drammatiche). Nella storia del cattolicesimo italiano non sarebbe una assoluta novità: in fondo, l’Opera dei Congressi costituì un luogo in cui i cattolici, creativamente, pensavano insieme al bene comune, pur non potendo partecipare alla vita politica. Ora i cattolici potrebbero individuare, ancora insieme, i punti su cui essere uniti anche militando in partiti diversi. Non penso che una tale iniziativa possa essere accusata di “ingerenza”, perché essa rientrerebbe nella ordinaria e normale attività educativa, che la Chiesa ha il diritto di esercitare con libertà.
Tutto ciò, comunque, mette in luce che le comunità cristiane sono chiamate ad un immenso compito educativo, che rianimi un popolo indicandogli le dimensioni con cui vivere l’esperienza cristiana e cioè le tre dimensioni inseparabili della cultura, della carità e della missione.
Peppino Zola
Peppino, io sono d’accordo, figurati, sono della scuola di Newman per il quale “la Chiesa è un partito”. Il problema, che deve essere affrontato con la necessaria intelligenza, ha bisogno innanzitutto di uomini che lo incarnino, altrimenti, come accaduto negli ultimi anni, si faranno solo dei gran convegni. Ci vorrebbe un “Ruini”, che oggi non c’è.
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