C’è chi dice che si prenderà una rivincita a Palermo. Altri che la batosta è definitiva e che il partito della ghigliottina dovrà far paurosa retromarcia. Certo è che a Perugia si è vista la smentita di un’ipotesi peregrina fatta per appendere a un gancio di macelleria cinquant’anni di onorato servizio – anche se politicamente discusso e discutibile – reso alla democrazia e al benessere di questo paese. E così, per vie che non si possono certo augurare a nessuno, Giulio Andreotti ha scritto ancora una volta un capitolo della storia italiana e si appresta ad andare a Palermo sicuro che la giuria saprà in che cestino buttare quelle montagne di carte che in quattro anni di rovesciamento di calzini non hanno portato un solo riscontro fattuale alle accuse di un pugno di pentiti. Andreotti non ha ucciso Pecorelli, non ha baciato Riina, non ha aggiustato processi in nome e per conto della mafia. Questo è evidente al buon senso prima che ad ogni esito processuale favorevole ad Andreotti, che comunque verrà, ne siamo certi, se la giuria palermitana manterrà nervi saldi e occhi spalancati sui fatti. C’è allora da domandarsi di nuovo: e dunque questi sei-sette anni di polemiche, scoop, pentimenti a scoppio ritardato, rivelazioni esplosive, inchieste, protagonismi in tv, a che pro? Naturalmente l’esito politico è sotto i nostri occhi, benché, ora, tardivamente, il senatore Antonio Di Pietro chieda di andare “a vedere le carte” e rilanci l’idea (da lui stesso e dai suoi colleghi) bocciata un anno fa, di un’inchiesta su Tangentopoli e sui professionisti dell’Antimafia. E dunque sappiamo che la rivoluzione a Milano e le rivelazioni a Palermo sono serviti anzitutto a costruire carriere: carriere in Parlamento e al governo, carriere nei tribunali e nei giornali. Sono servite a farci immaginare per un certo tempo che da una parte ci fossero i cattivi, dall’altra un esercito di liberatori. Che da una parte ci fosse l’Italia che resisteva almeno dall’epoca della resistenza antifascista, dall’altra l’Italia prepotente e assetata di sangue dei cittadini. Da una parte la bellissima e romantica “diversità” del Pci (ora si scopre anche lautamente sovvenzionata dalla mai tradita Mosca), dall’altra quella banda democristiana e socialista così corrotta e così assassina che non si capisce perché, negli anni migliori di regime, fece di tutto per regalare città, piazze, giornali, scuola, università e tribunali ai propri oppositori. Adesso che questa illusione si sta miseramente dissolvendo ed emergono sempre più chiaramente i contorni dell’oscura epoca di un quasi colpo di stato consumato sul corpo di un animale politico vecchio e ferito, occorrerà prima o poi che qualcuno ponga fine a quella che fu una guerra civile strisciante e che ora nient’altro è che una farsa che annoia la vita politica italiana. “E intanto”, nell’attesa di vedere finalmente le prime stelle di un’Italia “normale” – come scriveva Giacomo Leopardi alla sorella Paolina, spaesata e in pena non sapendo a quali e quanti cavalieri l’avessero proposta in moglie i suoi genitori – “spazzatemi la casa dalla malinconia”. TEMPI
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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Emanuele Boffi