«Io, madre di Tienanmen, non posso piangere mio figlio, massacrato in piazza dall’esercito cinese»
«Mamma, pensi che i soldati apriranno il fuoco?». «No, credo di no. Ma non uscire». «Mamma, ma ti preoccupi? Non uscirò. Non dimenticarti domani, quando sorge il sole, di stendere sul balcone i miei panni lavati». Zhang Xianling (foto sopra) non sapeva che suo figlio, Wang Nan, non avrebbe mai più visto il sole sorgere e che quello sarebbe stato il loro ultimo dialogo.
Era la sera del 3 giugno 1989 quando Xianling e suo figlio Nan si scambiarono quelle ultime parole a Pechino. Nonostante la legge marziale che imponeva il coprifuoco, alle 11 di sera Nan prese la sua macchina fotografica, inforcò la bicicletta e, come disse ad un amico, pedalò in fretta verso piazza Tienanmen per «scattare fotografie storiche». Il 4 giugno, alle 3.30 del mattino, Nan giaceva sull’asfalto senza vita, con un foro di proiettile sulla nuca. Aveva 19 anni.
LETTERE APERTE AL PARTITO. Questo è quello che la signora Zhang, insieme alle altre Madri di Tienanmen, ha scritto per vent’anni di fila in una lettera indirizzata al “Parlamento” cinese, l’Assemblea nazionale del popolo, che si riunisce una volta all’anno a marzo. Quest’anno però hanno deciso di non scrivere nulla. «Non essendo riuscita a consultarmi con le altre prima di rispondere [a queste domande], voglio che sia chiaro che sto parlando per me, non a nome del movimento», precisa Zhang. «Come si è reso evidente anche l’anno scorso, queste lettere aperte vengono ignorate. La maggior parte di queste persone [in “Parlamento”] è indifferente, immorale e disumana. E a prescindere da quello che dicono, non ci rappresentano».
ARRESTI E PERSECUZIONI. Zhang non ha mai avuto paura di dire quello che pensa dei membri del partito comunista. E questo non è scontato. Ogni anno, a marzo e soprattutto quando si avvicina l’anniversario della strage, che in Cina è vietato commemorare o anche solo nominare, la polizia minaccia lei e suo marito. Una volta li hanno arrestati, spesso gli impediscono di uscire di casa, sempre li avvertono di non parlare con i giornalisti. Per assicurarsene, diverse guardie, in borghese e non, si appostano davanti alla sua porta per non lasciare entrare nessuno. «Quest’anno ho detto loro che avrei concesso interviste a chiunque avesse cercato di contattarmi». E per questo ha risposto anche a tempi.it.
«GUARDIE DAVANTI AL PORTONE». I circa tremila delegati del “Parlamento” si sono riuniti quest’anno nella Grande sala del popolo in piazza Tienanmen il 5 marzo. I lavori si sono conclusi domenica e Zhang ha ricevuto il solito trattamento: «Davanti al mio portone, nel distretto di Chaoyang, ci sono le guardie. Non permettono ai giornalisti di entrare. Se voglio uscire, ci sono agenti in borghese che mi seguono».
Se negli ultimi vent’anni Zhang «non ha ricevuto alcuna risposta» alle sue lettere dal governo cinese, c’è solo un motivo: «Non vogliono ammettere le loro colpe». Ma di colpe ne hanno eccome e la storia del figlio «massacrato nel pieno della sua giovinezza», racconta ancora la madre, parla da sola.
«È UN RIVOLTOSO». Verso mezzanotte, un gruppo di studenti di medicina che girava per le strade per aiutare i feriti, trovò Nan e altre tre persone. Dopo aver visto che era solo un liceale dalla sua carta d’identità, i soldati concessero agli studenti di curarlo sul posto con quello che avevano: garze e disinfettante. Alle 3.30 di mattina, Nan morì sull’asfalto per le ferite riportate. I medici chiesero allora ai membri dell’esercito di portare il suo corpo in ospedale, affinché la famiglia potesse recuperarlo ma quelli risposero: «È un rivoltoso, non può essere portato via. Andatevene rapidamente di qui o vi arrestiamo».
DOPPIA FORTUNA. Se la signora Zhang è così fortunata da sapere come è morto suo figlio, è solo perché quegli studenti di medicina, ricordandosi il nome, la andarono a cercare e le raccontarono tutto. Zhang è una delle poche madri ad avere anche un’altra fortuna: una tomba su cui piangere. È solo per un caso che le ceneri di suo figlio si trovano sepolte nel cimitero di Wanan e hanno un nome.
VIETATO RICORDARE. Nessuno sa quante persone siano morte quella notte. Le stime più alte parlano di duemila persone, che Pechino definisce ancora «criminali». Le famiglie che a 25 anni da quel giorno chiedono giustizia, o anche solo di piangere i propri figli, sono costantemente perseguitate dal regime comunista. Non potendo sopportare l’imposizione di questo oblio, Ya Weilin, marito di una delle Madri di Tienanmen, si è impiccato nel 2012.
«DITE LA VERITÀ». Zhang non si è ancora arresa e lancia un appello a tutta la Cina: «Dite la verità, rifiutatevi di dimenticare, cercate giustizia e risvegliate le coscienze». In fondo è per questo che ha partecipato alla fondazione delle Madri di Tienanmen: «Il governo non può nascondere la verità. Come madre di una delle vittime, penso che il partito dovrebbe ammettere i propri crimini e chiedere scusa per quelle persone morte a Tienanmen solo perché cercavano giustizia».
Foto carri armati Ansa
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!