Intrigante indagine chestertoniana tra scienza e mistero nel cuore di Padova
Articolo tratto dal numero di gennaio 2021 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Nove giorni per scoprire cosa è accaduto a quell’uomo ritrovato rantolante in una pozzanghera di vomito nei bagni del Caffè Pedrocchi, nove giorni di indagine “informale” del viceispettore Giovanni Zanca per scoprire chi voleva morto il professore Eugenio Visonà che ora lotta tra la vita e la morte in rianimazione al Giustinianeo di Padova. Diciamolo subito, la perfezione delle forme dell’intrigo congegnato da Alberto Raffaelli nel suo Delitto al Caffè Pedrocchi (Itaca) è seconda solo a quella con cui Raffaelli va orientando al mistero ciascun destino indagato dal suo “Maigret di Valdobbiadene” (già protagonista de L’Osteria senza oste e Il maestro vetraio).
Il giallo dell’avvelenamento del professore, inquietante rebus inviato via email a tre persone molto diverse, ma anche il significato di «ciò che ognuno è costretto a fare con la propria vita, quando una fatalità, o qualcos’altro, lo costringe ad andare a ritroso per cercare il segreto della sua esistenza, quell’unica cosa necessaria che aveva smarrito, dimenticato o di cui non si era mai interessato»: impossibile non cogliere la ricerca di questo segreto nell’avvicendarsi dei personaggi attorno alle maestose sale dello storico caffè letterario Pedrocchi, dove «ogni cosa contiene un messaggio», o nel raggelante bronx di via Anelli, «immondezzaio di giorno e inferno di notte», ma anche sui campi della Pio Decimo Calcio, tre le scrivanie del rettorato di Palazzo Bo, fino ai chiostri della basilica del Santo, davanti al vecchio confessionale di un frate.
È qui che il genialoide professor Visonà, tanto noto a livello internazionale per i suoi studi sulle applicazioni della fisica quantistica nella finanza, quanto discusso e inviso ai colleghi, veniva ogni venerdì, lasciando il tempio patavino di scienza, conoscenza e potere, «che cosa ci veniva a fare un un tipo come lui – un anarchico, senza alcun apparente interesse per la religione»? Perché i giornali insistono sulla tesi del tentato suicidio e in una immagine negativa che tanto fa a cazzotti con la stima di un manipolo di suoi studenti, per cui il professore è stato e sarà «un vero maestro»? E quale parte nella storia ha un ragazzino senegalese con un talento mostruoso a calcio e un sarcoma del ginocchio? E chi è il mittente di queste misteriose mail, Sidereus Nuncius, che richiama al lettore l’opera scritta nel 1610 da Galileo Galilei per annunciare le sue scoperte fatte a Padova dopo aver volto il cannocchiale al cielo?
Raffaelli è bravo, bravissimo, non solo perché dirige la scuola professionale di ristorazione di Valdobbiadene (Tv) Dieffe, capace a maggio di riportare in classe e in piena sicurezza e fiducia delle famiglie 250 alunni, uno che ancora educa a quel fattaccio della vita, più grande di ogni malattia. Ma perché a questa vita, le sue medicine amare, i suoi cassetti della biancheria sporca, le fabbriche della paura (sì, c’entrano anche pandemia e vaccini), alle sue scoperte, domande ha dedicato un altro bellissimo mistero alla Chesterton, lo scrittore per cui «tutta la scienza, anche la scienza divina, è una sublime storia gialla. Solo che non è impostata per rilevare perché un uomo sia morto, ma il segreto più oscuro del perché egli viva».
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