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In Malaysia pochi danni dal coronavirus, tantissimi dalla paura del contagio

Con la scusa del Covid-19 si fa strada in tutto il mondo, anche qui nel Sudest asiatico, l'imposizione di una neo-lingua e di un nuovo ordine pericolosi

Carmelo Ferlito
14/05/2020 - 1:00
Esteri
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coronavirus malaysia

Cari amici di Tempi, vorrei condividere con voi una riflessione dettatami dall’esperienza del Covid-19 nel Sudest asiatico e specificatamente in Malaysia. Per quanto sia ancora in discussione la reale dimensione globale del fenomeno, è chiaro che esso ha avuto diffusione molto eterogenea a livello mondiale. Quasi il 30 per cento dei morti da Covid-19 si trova negli Stati Uniti, mentre Francia, Italia e Spagna insieme mettono insieme un altro 30 per cento (non parlo dei casi, perché essi sono influenzati dalla rilevazioni, dai “test”). Il Sudest asiatico, che ospita circa il 10 per cento della popolazione mondiale, ha registrato solo lo 0.67 per cento dei decessi imputati al coronavirus; al 13 maggio ci sono stati in tutta la regione, popolata da quasi 700 milioni di persone, meno di duemila morti (1.913, includendo anche Hong Kong). Un numero statisticamente irrilevante, in particolare se paragonato ai bollettini che ci giungono dall’Ovest.

Il risultato non può essere imputato ai vari lockdown, che sono stati implementati in ritardo rispetto all’Italia, ad esempio, e in modo piuttosto eterogeneo nella regione. La mortalità per milione di abitanti è praticamente la stessa, tra 3 e 4, a Singapore, in Malaysia e in Indonesia, che hanno attuato politiche di chiusura molto diverse e in tempi diversi, mentre arriva a 7 nelle Filippine, dove il presidente Rodrigo Duterte ha impiegato la mano pesante, e 0.8 in Thailandia, dove invece le restrizioni sono state più morbide.

La digressione statistica è per giungere alla conclusione che un fenomeno disomogeneo richiede soluzioni disomogenee. Non si può pensare di adottare la stessa strategia a New York e a Saigon, dove non è morto nessuno. E invece, giorno dopo giorno, assistiamo a politiche mondiali molto uniformi, con poche e contestate eccezioni, come il caso della Svezia. Nella confusione generale, la politica mondiale si è affidata alla guida dell’Oms, ignorando il fatto che gli esperti sono esperti e non oracoli, e che la conoscenza scientifica procede attraverso il dubbio, la confutazione e l’errore, e non attraverso l’applicazione fanatica di protocolli universali.

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Gli esperti sbagliano, come è naturale che sia, e le loro “previsioni” vanno prese per quello che sono. Il modello dell’Imperial College, invece, è stato applicato senza critica, ignorando il fatto che un modello, anche perfetto, fallisce se le premesse sono sbagliate.

Tale uniformità di pensiero e azione a livello globale è iniziata con quello che Battiato chiamava “l’impero delle parole”. Ho constatato come ad esempio il termine “social distancing” sia stato accettato e adottato universalmente, senza che nessuno si sia preoccupato di contestarlo. Perché il distanziamento deve essere sociale? Non si tratta di distanziamento fisico? Da quasi dieci anni vivo lontano dai miei genitori, a circa diecimila chilometri di distanza; ci sentiamo socialmente distanti? Direi di no; grazie alla tecnologia, ci sentiamo tutti i giorni, ci preoccupiamo gli uni degli altri e ci aiutiamo e sosteniamo. Perché dunque insistere sul “sociale”? Gli effetti si vedono molto qui in Malaysia, dove la popolazione, soprattutto quella di origine cinese, si è chiusa in casa nonostante le restrizioni siano state alleggerite. L’effetto paura ha vinto.

L’altra espressione pericolosamente accettata universalmente è quella di “new normal”; mi sembra che in Italia se ne discuta meno che qui, ma il punto è l’insistenza del ritornello “niente sarà più come prima”: dovremo rimanere “socialmente” distanti per almeno altri tre anni, dobbiamo attendere il vaccino e così via. Per quale motivo la vita non dovrebbe tornare ad essere quella di prima? Nei secoli abbiamo superato pandemie che erano davvero molto più “pan” di quella presente (che per ora ha fatto meno della metà dei morti di un’influenza stagionale cum vaccino). Insomma, dobbiamo abituarci a starcene chiusi in casa e a vivere nel terrore, con la paura di una seconda ondata: il coronavirus sembra peggio di Gengis Khan e dei Lanzichenecchi.

Altrettanto insopportabile è l’eccitante scoperta dello smart working e della smart education, come se fare le cose “dal vivo” fosse dumb. La tecnologia aiuta e si è dimostrata molto utile per aiutarci a superare le distanze; ma l’educazione è un rapporto umano e non solo la trasmissione di nozioni (altrimenti sarebbe meglio chiudere le scuole e vendere tutorial software). Allo stesso modo, nel mondo del lavoro si ha bisogno del rapporto umano per capire cosa un dipendente può fare e cosa non può, se ha bisogno di riposo o di motivazioni. Zoom non sostituisce lo sguardo.

Questi sono alcuni esempi della reazione uniforme al Covid-19, non dal punto di vista medico o politico, ma dal punto di vista culturale. Pericolosi tentativi di creare una mentalità antiumana. Qui in Malaysia gli annunci giornalieri sono nelle mani del ministro della Difesa, che ogni giorno minaccia nuove punizioni per chi trasgredisce agli ordini: con 6.500 casi di covid e 109 morti, ci sono stati 25 mila arresti (non multe) per violazioni del lockdown. Le imprese sono minacciate di chiusura se un dipendente si ammalasse, e ai dirigenti viene paventata l’opzione del carcere se l’ufficio non viene disinfettato tre volte al giorno. Per inciso, questo clima non fa bene neanche all’economia; non basta ricominciare a produrre per rilanciare l’economia, la gente deve anche consumare. E per consumare la gente ha bisogno di: reddito (distrutto dalla disoccupazione galoppante), libertà (minacciata dal lockdown) e fiducia (nemica della paura).

Devo francamente confessare che mi colpisce il silenzio della Chiesa cattolica su questi temi, soprattutto sulla neolingua che ci è stata imposta senza alcuna fatica. Mentre era utopistico attendersi una risposta cristiana all’emergenza (per un cristiano fare i conti con la morte, cioè col senso della vita, dovrebbe essere il primo esercizio del mattino), il silenzio della Chiesa sull’uso di termini che minano alla radice la concezione di uomo che le sta a cuore è stato occasione di ulteriore dolore, che si è aggiunto allo struggimento per il digiuno eucaristico, sul quale qui in Malaysia non abbiamo alcun segno di inversione di marcia (e non sono stato in grado di trovare messe clandestine).

In conclusione, col virus che sembra perdere potenza, si apre ora un altro fronte, quello della lotta contro la paura creata dall’imposizione universale e uniforme di un nuovo linguaggio che nessuno, neanche la Chiesa, ha avuto il coraggio di contrastare con vigore.

Tags: CoronavirusMalaysia
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