In che senso esiste un “diritto alla felicità”
«Muor giovane colui ch’al cielo è caro», recita la traduzione che Leopardi fece del noto frammento del lirico greco Menandro, e che il poeta recanatese pose in epigrafe al suo canto Amore e morte. Ci piace pensare che sia andata così anche per Emanuele Samek Lodovici, filosofo cattolico scomparso prematuramente il 5 maggio 1981 a soli trentotto anni.
Di certo con la morte di Samek il pensiero filosofico italiano perdeva una delle sue menti più brillanti, e che come tale era ritenuto, tra gli altri, da studiosi del calibro di Sofia Vanni Rovighi, Vittorio Mathieu, Cornelio Fabro. Basti dire che in una lettera di poche settimane prima della morte – lettera di cui chi scrive si pregia di averne avuto in dono una copia dal figlio Giacomo, anch’egli validissimo docente – un gigante come Augusto Del Noce si spinse a dire: «Lei ha ormai la possibilità di diventare un vero maestro. Né minimamente esagero nel dirLe che non ne vedo altri fra coloro che hanno oggi meno di quarant’anni».
Parole come si vede di grande apprezzamento, e nelle quali sembra di poter scorgere – almeno questa è la nostra opinione – quasi una sorta di investitura da parte del grande filosofo torinese nei confronti di Samek come suo erede filosofico.
Ma Samek è stato anche un autore versatile; dismessa la veste del docente universitario era capace di tenere una conferenza anche davanti ad un pubblico di semplici parrocchiani, affrontando argomenti complessi unendo il rigore dello studioso e il linguaggio del divulgatore.
Due tipologie
Chi vorrà apprezzare lo stile e la profondità di analisi di questo grande studioso, ha ora un ottimo strumento a disposizione. Le edizioni Ares hanno infatti meritoriamente pubblicato un libro che raccoglie i testi di dieci, di cui sette inedite, tra le più importanti conferenze non accademiche tenute da Samek tra il 1977 e il 1981 (E. Samek Lodovici, Una vita felice, edizioni Ares, 18 euro).
Le conferenze raccolte si possono dividere idealmente in due tipologie. Ci sono conferenze “pratiche”, se mi si passa il termine, che affrontano cioè temi riguardanti il vivere quotidiano e l’esistenza concreta delle persone, quali l’esistenza di Dio, la preghiera, il problema della morte, le virtù cardinali, l’arte di non disperare e l’educazione all’intelligenza; c’è poi un gruppo di conferenze dove Samek affronta alcuni dei fenomeni e delle questioni culturali emerse negli anni Settanta – l’attacco radicale alla famiglia, il femminismo, il rapporto tra cristianesimo, marxismo e freudismo e il “diritto” (così nel titolo della conferenza) alla felicità – il cui interesse non è solo di natura, per così dire, storiografico, ma ancor più perché fanno emergere il legame che c’è tra quanto accadeva in quegli anni e le dinamiche culturali contemporanee.
Cosa diceva De Sade
Non volendo spoilerare troppo per lasciare al lettore il gusto di scoprire tutta la ricchezza di un libro oltretutto godibilissimo, diamo solo qualche cenno alla conferenza che apre il volume e il cui tema è richiamato nel titolo della raccolta: la felicità. Samek inizia dicendo che si fa sempre più diffusa (occhio alla data, siamo nel 1980, oltre quarant’anni fa) una richiesta di felicità, e che anzi si parla di “diritto” alla felicità, così come si parla di «diritto alla qualità della vita», di «diritto all’autodeterminazione di sé», ecc.
Tutte espressioni che oggi sono diventate di uso comune, vero? Bene. Ora per meglio a focalizzare in cosa consiste tale “diritto” alla felicità, Samek fa riferimento ad una frase di quell’anima pia che va sotto il nome di Marchese De Sade (per inciso: era un “allievo” del Marchese, un maniaco sessuale, uno dei sette – leggi bene: sette – detenuti che ospitava la Bastiglia quando avvenne la leggendaria, alla lettera, “presa” che il 14 luglio 1789 segnò l’avvio della rivoluzione), secondo cui «prima noi, poi gli altri, questa è la regola della natura». Diritto alla felicità quindi come diritto di un soggetto del tutto ego-centrico, cioè centrato su sé stesso, che antepone se stesso agli altri e per il quale il mondo che lo circonda, dice Samek, «è una cava di energia, è un materiale infinitamente manipolabile su cui il soggetto ha una totalità di diritti».
Diritto assoluto
Riecheggia in queste parole di Samek l’analisi che Augusto Del Noce aveva svolto sul finire degli anni Sessanta a proposito dell’uomo nuovo, disincantato e indifferente al fatto religioso, libertino e materialista che era sorto in concomitanza con l’avvento della cosiddetta società opulenta: «All’ascesa a Dio – notava Del Noce nel 1967 – si sostituisce l’idea della conquista del mondo, ovvero l’affermazione del diritto che il singolo soggetto ha sul mondo. Diritto che non ha limiti, perché, chiamato al mondo senza il suo volere, egli sente di aver diritto, quasi a compenso di questa chiamata, a una soddisfazione infinita nel mondo stesso. Ma, naturalmente, l’uomo singolo non può arrivare all’integralità di questa conquista. Può fare gli altri suoi strumenti, ma facendosi a sua volta loro strumento».
Tornando a Samek il diritto alla felicità è dunque il «diritto assoluto del soggetto nei confronti dell’altro» che fa sì che «qualunque sofferenza dell’altro non vale il mio più piccolo piacere». O, per dirla ancora con de Sade: «La più forte dose di dolore negli altri deve ovviamente essere nulla per noi, mentre il più lieve solletico di piacere da noi provato ci tocca, ci emoziona. Dunque noi dobbiamo ad ogni costo preferire questo lieve solletico di piacere alla somma immensa dell’infelicità altrui, che non ci riguarda».
Lo Stato ci deve dare
Chiarito il cosa, il passaggio successivo dell’analisi di Samek è risalire al quando e al come si è affermato questa idea del diritto. Quando e come che coincidono in una parola: Illuminismo. È con l’Illuminismo infatti che avviene il capovolgimento, il ribaltamento del significato della parola “diritto”. Se prima, per secoli e secoli, il diritto aveva una connotazione “attiva”, era cioè inteso, dice Samek, come il diritto del soggetto a fare lui qualcosa (trovarsi un lavoro, costruirsi una casa, proteggere la proprietà, ecc.) – esemplare di tale impostazione molto radicata tutt’oggi negli Usa è il bellissimo film di G. Muccino non a caso intitolato La ricerca della felicità – con l’Illuminismo cambia tutto: «I diritti sopra menzionati diventano diritto a che gli altri mi diano un lavoro, a che gli altri mi diano una proprietà, ecc.».
Ed è esattamente in questo contesto che dall’io attivo si passa ad un io passivo e conseguentemente all’idea dello Stato assistenziale moderno: «Il soggetto non è più colui che ha diritto a fare, bensì colui che ha diritto a ricevere dallo Stato e dagli altri… Se noi abbiamo diritto, allora lo Stato ci deve dare».
Il matrimonio
Il cambiamento di prospettiva non poteva essere più radicale e con conseguenze decisive in tutti gli ambiti della vita individuale e sociale: «Presto questa nozione di diritto alla prestazione si è riflessa su una delle chiavi di fondo della società antica: il “diritto alla felicità”». Diritto alla felicità che quindi diventa diritto, meglio pretesa a che gli altri mi facciano felice. Significa che «non è più il soggetto che esige a sé i mezzi e le azioni per diventare felice, bensì che gli altri hanno il dovere di farmi felice, perché io ho diritto alla felicità. E se gli altri non mi fanno felice, gli altri hanno torto». Qual è il limite, il problema di tale concezione? Che io «non chiedo più a me stesso di impegnarmi per essere felice».
Già da questi brevi cenni è possibile rendersi conto di come tutto quello che vediamo accadere oggi – si pensi solo alla questione dei “diritti civili” cosiddetti – non è altro che lo sviluppo lineare e conseguente delle dinamiche culturali e sociali che Samek aveva intravisto con estrema lucidità più di quattro decenni fa.
Dinamiche che hanno investito ogni ambito della vita sociale. Samek porta l’esempio del matrimonio e della famiglia. Se il punto di partenza è che gli altri devono farmi felice perché ho diritto ad esserlo, è chiaro che se mia moglie, per i motivi che siano, non soddisfa più questo mio diritto «diventa inevitabile che… il rapporto si indebolisce e le relazioni diventano solo a tempo». Ossia: posso separami o divorziare e rifarmi una vita.
La famiglia
Quanto alla famiglia il discorso è lo stesso solo spostato sui figli. Con una differenza: che in questo caso l’”ostacolo” alla mia felicità viene semplicemente abbattuto prima ancora di nascere. Il punto è sempre quello: togliere di mezzo tutto ciò che mi impedisce di avere una vita felice e degna di questo nome, una vita qualitativamente all’altezza.
Sta tutto qui il problema dell’aborto o della contraccezione: vedere il figlio come un’antagonista alla realizzazione di sé. Poiché il figlio, per natura, ha bisogno di essere amato per primo, quando invece sono io che voglio essere amato e pretendo che tutto ciò che mi circonda sia funzionale a tale diritto, ecco che «diventa inesorabile il problema dell’aborto».
Un po’ di felicità in questa vita
Di esempi se ne potrebbero fare molti altri, dall’amicizia al lavoro a tutto. Ciò che per Samek resta, e con questo siamo arrivati alla conclusione, sono due punti. Il primo è che no, non esiste alcun diritto alla felicità intesa come diritto a che gli altri mi facciano felice. Il secondo è capire una cosa tanto semplice quanto profonda: e cioè che l’anelito alla felicità, il desiderio di una vita piena e felice che l’uomo sente e sperimenta dentro di sé non potrà mai essere soddisfatto in questa vita; in un certo senso è vero che esiste un diritto alla felicità, a patto però di intenderlo come una incessante ricerca di una felicità che non è di questo mondo e che «l’uomo da solo non può raggiungere e che soltanto Dio gli può donare».
Ma allora non c’è speranza di trovare un po’ di felicità in questa vita? La risposta di Samek, che si rifà ad Aristotele e allo stesso tempo alla più genuina morale cristiana, è la seguente: se si vive solo per essere felici si resterà delusi; se viceversa si accetta, si mette in conto che la vita è fatta anche di sofferenza, di dolore e fatica, allora le cose cambiano.
«È caratteristico della capacità di sentire dell’uomo che nella misura in cui, senza andarli a cercare, non si vieta però ogni dolore e sforzo, egli è capace di gioire». Sta tutto qui il guaio dell’uomo moderno: che a furia di vivere per sé stesso, a furia di rifiutare tutto ciò che va contro la sua idea di bene e di felicità, ha perso totalmente la benché minima capacità di soffrire e, quindi, di gioire. Al contrario, è solo nella donazione di sé, che sempre comporta combattimento e sofferenza, che l’uomo può (ri)trovare la vera vita e, per quanto possibile in questo mondo, quella felicità che sarà piena e totale in Dio. Un messaggio quanto mai attuale.
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