In Africa ne uccide più la legge che il Covid

Di Rodolfo Casadei
30 Aprile 2020
Dal Sudafrica al Kenya, dal Niger all’Uganda le forze di sicurezza usano la mano pesante con chi non rispetta la quarantena

Alla data del 28 aprile la Nigeria registrava 40 morti da Covid-19; alla data del 15 aprile aveva registrato (dato fornito dalla National Human Rights Commission of Nigeria, ente ufficiale) 18 uccisioni da parte delle forze dell’ordine di persone colpevoli di trasgredire le disposizioni delle autorità per il contenimento dell’epidemia da Covid-19. E non è questo l’unico caso in Africa nel quale le vittime del contagio sono comparabili a quelle dovute alla repressione poliziesca di attività incompatibili con il lockdown: dal Sudafrica al Kenya, dal Niger all’Uganda le notizie sull’uso della mano pesantissima da parte delle forze di sicurezza nei confronti dei trasgressori della quarantena si rincorrono per tutto il continente. Relatori ed esperti del Consiglio per i diritti umani dell’Onu esprimono la loro preoccupazione: «Gli Stati non dovrebbero abusare delle misure d’emergenza per ignorare i diritti umani», titolano un loro intervento sul sito dell’ente delle Nazioni Unite; Ong come Human Rights Watch, Amnesty International e organizzazioni locali nei vari paesi denunciano e protestano; la stampa libera racconta. 

Uganda, arresti e torture

In Uganda il 27 aprile il deputato dell’opposizione Francis Zaake è apparso davanti a un giudice per rispondere di inosservanza di provvedimento delle autorità e per atti suscettibili di cagionare epidemia, per aver distribuito generi alimentari a famiglie bisognose recandosi ai loro domicili. Il giudice ha sospeso immediatamente l’udienza perché il detenuto non era in grado di seguire il procedimento a causa delle torture subìte nei precedenti nove giorni trascorsi in stato di arresto e ha ordinato che ricevesse cure adeguate prima dell’inizio del processo. Paul Mwiru, un altro parlamentare dell’opposizione che lo aveva visitato in prigione, ha dichiarato che Zaake aveva problemi alla vista e profonde ferite al petto. E che «lo avevano picchiato sulla schiena. Aveva un mucchio di lividi in faccia. Non riusciva a muoversi perché le gambe erano gonfie a causa di colpi ricevuti». L’Uganda al 28 aprile registrava 79 casi di contagio e nessun decesso. Le misure restrittive comprendono coprifuoco notturno, divieto di ogni forma di trasporto, pubblico e privato, sospensione dei servizi non essenziali, chiusura dei mercati non alimentari e dei centri commerciali, divieto delle attività economiche informali di strada. A far rispettare le disposizioni non sono solo la polizia e l’esercito, ma gruppi paramilitari locali che vanno sotto il nome di Local Defence Unit (Ldu). Secondo Human Rights Watch «le forze di sicurezza hanno fatto un uso eccessivo della forza, comprese percosse, uso delle armi da fuoco e arresti arbitrari di persone in tutto il paese». Il 26 marzo alla periferia di Kampala la polizia ha ferito a colpi di arma da fuoco il guidatore di una mototaxi e il suo passeggero, che stavano violando il divieto degli spostamenti motorizzati. Lo stesso giorno «elementi delle Ldu hanno utilizzato cavi metallici e bastoni per picchiare persone in transito, compresi venditori abusivi di frutta e verdura e motociclisti di passaggio, nel centro di Kampala allo scopo di punire i trasgressori delle disposizioni governative». 

Kenya, frustate e uccisioni

Peggio dell’Uganda sta il Kenya, dove le misure di quarantena sono iniziate il 27 marzo e dopo dieci giorni si contavano già 6 persone uccise dalla polizia nel corso di interventi contro trasgressioni delle misure anti-epidemia. «La polizia, senza apparente giustificazione, ha sparato e malmenato persone al mercato o di ritorno dal lavoro, anche prima dell’inizio del coprifuoco. La polizia ha anche fatto irruzione in case e negozi, estorto denaro a residenti o saccheggiato generi alimentari in varie località. (…) Nel centro di Nairobi la polizia ha  arrestato persone per strada, frustandole, prendendole a calci e ammassandole insieme, aumentando il rischio di diffusione del virus. Nel quartiere di Embakasi, Nairobi est, agenti di polizia hanno costretto un gruppo di persone che stavano tornando a casa dal lavoro a inginocchiarsi, poi le ha frustate e prese a calci. A Mombasa il 27 marzo, due ore prima dell’inizio del coprifuoco, la polizia ha sparato gas lacrimogeni contro la folla che si accalcava per prendere un traghetto per tornare a casa dal lavoro picchiando le persone con manganelli e calci di fucili, prendendole a calci, a schiaffi e costringendole a stringersi gli uni contro gli altri o a sdraiarsi gli uni sugli altri». Dopo aver documentato la morte di un venditore di strada colpito da un proiettile di gas lacrimogeno, «Human Rights Watch è stata in grado di confermare che un secondo uomo è stato malmenato a morte dalla polizia a Kakamega, un terzo a Homa Bay, nel Kenya occidentale, e altri due nella contea di Kwale, nella regione costiera».

Sudafrica, cannoni ad acqua e proiettili di gomma

In Sudafrica il lockdown è iniziato il 26 marzo e al 20 di aprile si contavano 8 morti e 200 denunce di brutalità poliziesche, alcune indirizzate alle autorità e altre semplicemente censite da enti di ricerca e organi di stampa. «Sin dai primi giorni del lockdown dovuto al Covid-19 in Sudafrica sono emersi numerosi video che ritraggono polizia e militari che prendono a calci, a schiaffi, a frustate e a colpi di arma da fuoco i trasgressori della quarantena. Le forze dell’ordine sono state viste usare cannoni ad acqua e proiettili di gomma, costringere persone in posizioni umilianti», rende noto l’Institute for Security Studies. «Sono circolati una quantità di video della polizia e dell’esercito incaricati di far rispettare il lockdown che picchiavano le persone che a loro parere non stavano rispettando le restrizioni», scrive William Gumede sul Daily Dispatch. «A Hillbrow, quartiere di Johannesburg, la polizia ha preso a frustate persone che a suo parere non stavano rispettando le norme della quarantena. A Soweto i militari hanno costretto per punizione i trasgressori a fare flessioni sul suolo. Fino ad oggi un solo poliziotto è stato arrestato per aver ucciso un cittadino dopo averlo seguito dal bar fino a casa sua. Si segnalano pure incidenti nei quali polizia ed esercito hanno agito contro il buonsenso e arrestato cittadini che stavano agendo secondo le regole. In un certo numero di casi persone che si recavano legittimamente in farmacia, al supermercato o presso altri servizi essenziali sono stati arrestate, accusate di aver violato la legge».

Nigeria, 18 morti

In Nigeria, il paese dove le forze dell’ordine avrebbero causato finora il più alto numero di vittime, il rapporto della National Human Rights Commission che copre il periodo fra il 30 marzo (inizio del lockdown) e il 13 aprile enumera 105 denunce di violazioni dei diritti umani ricevute o censite, provenienti da 24 dei 36 stati della Federazione nigeriana. Le denunce riguardano «uccisioni extragiudiziali, violazione del diritto alla libertà di movimento, arresto e detenzione illegittima, confisca o sequestro di proprietà, violenza sessuale, discriminazione, tortura, trattamento disumano e degradante, estorsione». Per quanto riguarda le 18 persone uccise, le responsabilità sarebbero così ripartite: «Guardie carcerarie sono responsabili di 8 decessi, la polizia di 7, l’esercito di 2, la Task Force per il Covid – 19 dello stato di Ebonyi è responsabile di 1 decesso». 

Niger, disordini in moschea e jihadisti

Nel vicino Niger la situazione sembra poter sfuggire di mano alle autorità in qualsiasi momento. Una parte degli abitanti, in grande maggioranza musulmani, non ha accolto favorevolmente la decisione delle autorità di chiudere al culto le moschee. «Se il Consiglio islamico del Niger, che rappresenta le principali autorità musulmane del paese, sostiene le decisioni del governo, numerosi fedeli vi si oppongono e tentano di sfidare le autorità continuando ad organizzare preghiere collettive», scrive in un commento l’International Crisis Group. «Nelle zone rurali, dove lo Stato dispone di una capacità minore per imporre queste misure, numerose moschee sono rimaste aperte e le preghiere continuano quasi normalmente. Nelle grandi città, alcuni fedeli continuano a sfidare il divieto tentando di riaprire la loro moschea o dandosi appuntamento in luoghi appartati, per lo più nelle periferie. Per reazione il governo ha represso i trasgressori, arrestando gli imam che dirigono queste preghiere o disperdendo i fedeli che vi prendevano parte. Questa repressione ha provocato delle scazzottate fra fedeli e forze dell’ordine. A partire dalla fine di marzo si segnalano puntualmente alterchi ogni venerdì in varie località attraverso il paese, come a Mirriah nella regione di Zinder, a Tessaoua nella regione di Maradi e a Illéla nella regione di Tahoua. A Niamey, la capitale del Niger, gravi violenze sono scoppiate la sera del 17 aprile in numerosi quartieri in seguito all’intervento delle forze dell’ordine per impedire lo svolgimento della preghiera del venerdì. Questi incidenti hanno provocato blocchi stradali e distruzioni di proprietà pubbliche e private». Al confine col Burkina Faso, dove operano bande jihadiste, la situazione è ancora più inquietante: «Alla frontiera fra il Burkina Faso e il Niger, dei jihadisti probabilmente affiliati allo Stato Islamico avrebbero vietato alla gente dei villaggi di rispettare le misure di lotta contro il Covid-19, in particolare il divieto delle preghiere collettive. Fonti locali contattate dal Crisis Group hanno indicato che numerosi imam e capi tradizionali dei villaggi al confine col Burkina Faso dove i jihadisti hanno una forte presenza si sarebbero rifugiati nella città di Téra per timore di essere presi fra due fuochi: la pressione delle autorità e le rappresaglie dei jihadisti». 

Foto Ansa

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