Impariamo a misurare il dolore

Di Carlo Bellieni
16 Febbraio 2020
Bisogna astenersi dall'accanimento terapeutico, ma come? Un neonatologo propone «il “pain principle” per contrapporlo al “best interest principle”, fumoso e soggettivo»

È stato emesso da pochi giorni il documento del Comitato nazionale di Bioetica (Cnb) “Accanimento clinico o ostinazione irragionevole dei trattamenti sui bambini piccoli con limitate aspettative di vita” sulla necessità di astenersi dall’accanimento terapeutico. Raccomandazione utile, basta capire di cosa stiamo parlando. Proprio a questo fine, al punto 1 delle raccomandazioni il documento così esordisce: “Identificare l’accanimento clinico attraverso dati scientifici e clinici il più possibile oggettivi, garantendo la migliore qualità dei trattamenti disponibili”. Questa raccomandazione essendo la prima espressa dal Cnb, sottende un particolare peso che riceve nel documento. Come dare a questa raccomandazione il giusto seguito per identificare davvero cosa è accanimento e cosa non lo è?

Ho di recente proposto su varie riviste scientifiche una modalità di rispondere a questa sollecitazione: usare gli strumenti clinici e laboratoristici che oggi abbiamo a disposizione per valutare il dolore e lo stress del bambino, dall’epoca neonatale in poi, e fornire questa valutazione ai genitori e ai curanti perché ne tengano conto nelle decisioni sul fine-vita ma anche nelle altre scelte terapeutiche. Il nome di questo sistema è “pain principle” per contrapporlo al “best interest principle”, troppo fumoso e soggettivo. La legge 38 del 2010 impone la misurazione del dolore di qualsiasi ricoverato per cui questo già dovrebbe essere fatto (sulla applicazione della suddetta legge potremmo discutere); si tratta di usare questa misurazione per dare uno strumento in più a chi deve decidere sulle cure, la loro durata e intensità, dando così una consistenza numerica e oggettiva, una specie di “metal detector” dell’accanimento.

I piccoli, ma anche gli adulti in coma o danneggiati cerebralmente, sono soggetti fragili, che non si possono esprimere a voce, per chiedere, per esempio, una sospensione o un prolungamento delle cure come potrebbe fare un adulto sano. Ma noi possiamo usare la misurazione dello stress come possibilità di dare voce al malato che non può esprimersi. Per ora, ohimé, per interpretare le volontà o il miglior interesse del bambino che non può parlare ci si affida troppo solo alla intuizione: dei curanti o dei genitori.

Oggi possiamo misurare lo stress con strumenti, molti dei quali sono alla portata di tutti, come le scale multifattoriali per la misurazione del dolore e dello stress, ad esempio la scala EDIN o la scala CRIES per i lattanti. Nei soggetti particolarmente compromessi e per ottenere una maggiore specificità e sensibilità della misurazione (cioè evitare falsi positivi e falsi negativi) possiamo usare strumenti più sofisticati quali la misurazione del livello degli ormoni dello stress (es. cortisolo o adrenalina) nel sangue o nella saliva. Oppure possiamo misurare il livello di attivazione del sistema simpatico, indice di stress, tramite la misurazione della conduttività elettrica palmare o misurando la variabilità della frequenza cardiaca (cosa diversa dal misurare la frequenza cardiaca che non ha specificità sufficiente). Questi sistemi sono ben validati e accettati dalla comunità scientifica, sebbene il loro uso sia ancora purtroppo scarso.

Ebbene sì, è possibile misurare il dolore e lo stress; ed è importantissimo farlo per non prendere decisioni su base soggettiva o affettiva. Dobbiamo arrivare a fare in modo che il bambino che non può esprimere il proprio peso che sente in una situazione lo esprima e, se non può farlo a voce, la scienza oggi è in grado di interpretare i segnali che dà in questo ambito.

Questo non significa certo un automatismo (dolore=sospensione delle cure o viceversa). Ma semplicemente avere lo strumento da usare per capire se le cure sono troppo gravose (chi sa dirlo dall’esterno?) o se la gravosità non risulta forte. E va da sé che la misurazione andrà fatta avendo cura di usare tutte le dovute strategie analgesiche farmacologiche e ambientali.

Certamente, mi permetto di dire, in un bambino gravemente compromesso tanto da impedire una vita di relazione, il livello di gravosità accettabile – cioè che può sostenere con una speranza che quella gravosità abbia un esito di un miglioramento ma che la diagnosi di patologia cerebrale ha escluso – è assolutamente minimo, cioè dobbiamo saper scalare o arrestare l’intervento gravoso quando vediamo che, in assenza di speranze di miglioramento, il bambino estremamente cerebropatico o in coma sente stress intrattabile. Ovviamente è vero anche il contrario: se non c’è stress, si deve discutere allora se non sia il caso invece di continuare le cure in corso.

È importante essere oggettivi, poter valutare i dati e non le impressioni, non permetterci di dare giudizio su quello che “forse” sente, dato che abbiamo strumenti per conoscere il suo stato di stress. Sarebbe atroce sospendere le cure pensando che uno soffra, mentre in realtà così non è; così come è atroce lasciar soffrire qualcuno perché noi non ce ne accorgiamo. Con stress o dolore intrattabile, le cure che li provocano vanno cambiate o ridotte. Come è ovvio, la valutazione del dolore dovrà tener conto di vari fattori: sono stati messi in atto tutti gli strumenti medici per evitare e curare il dolore? Si tratta di un momento della malattia acuto molto doloroso che ragionevolmente passerà? Oppure al contrario si tratta di un momento di calma dentro una situazione destinata a peggiorare? È uno stato doloroso ottenuto per una particolare terapia che porterà giovamento oppure no?

Ecco allora un punto fondante: l’accanimento terapeutico non è banalmente l’uso di cure inutili (per questo basta il buonsenso), ma possiamo definirlo come “tutto ciò che determina o inasprisce stress e dolore intrattabili e documentati nel soggetto che non è in grado di accettarli liberamente, senza che il soggetto ne abbia giovamento”. Potremmo anche dire che mentre l’uso di cure inutili è idiozia e spreco, accanimento terapeutico è l’uso di cure potenzialmente utili ma tali da provocare uno stato doloroso o stressante, a fronte di un piccolo o non adeguato vantaggio clinico. Capire questo è importante perché mentre tutti siamo contrari all’accanimento terapeutico, pochi sanno definire di cosa si tratta, e si rischia di allargare o stringere troppo le maglie della sua definizione con danni per i bambini.

Impariamo a misurare il dolore: è un obbligo di legge, ma è anche l’opportunità di capire cosa sta esprimendo pur senza parole il paziente grave, bambino o adulto incapace di esprimersi. L’arte del medico sta nel comprendere tramite i segni e oltre i segni, in una connivenza col paziente; quanta perizia occorre per vedere quel che gli altri non vedono e magari per fretta o ansia o eccesso di sentimento rischiano di travisare.

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