Un’altra legge è stata fatta: l’Ilva è salva. Proprio come richiesto a gran voce da Franco Sebastio, procuratore capo di Taranto, qualche giorno fa in un’intervista al Sole 24 Ore: «Se volete fermarci fate un’altra legge». Il parlamento e il governo, infatti, hanno approntato in tempo record un decreto legge che scongiura definitivamente il rischio di una chiusura dello stabilimento pugliese in mano al gruppo Riva, come conseguenza della raffica di sequestri preventivi messi in atto dalla magistratura locale nell’ultimo anno.
La bozza del decreto si appoggia sulla legge 231/2012, la cosiddetta legge “Salva-Ilva” che conferisce dignità di norma alla nuova Autorizzazione integrata ambientale (Aia), ma ne circoscrive l’applicazione al solo stabilimento di Taranto. Oltre a conferire pieni poteri per tre anni al nuovo commissario Enrico Bondi, già nominato amministratore delegato dell’Ilva l’11 aprile, ma costretto a dimettersi dopo nemmeno due mesi con tutto il Consiglio di amministrazione a motivo dell’ennesimo sequestro preventivo disposto dal giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco. La procura, questa volta, aveva allungato le mani su 8,1 miliardi di euro, tra beni, conti e quote societarie dei Riva. Importo che, però, il nuovo decreto provvede a svincolare interamente.
Commissariamento temporaneo, quello dell’Ilva, che è affidata nuovamente alla gestione Bondi, con una decisione politica che stigmatizza e smentisce l’operato, fin qui, della procura di Taranto, e al termine del quale spetterà al premier Enrico Letta nominare il successore. Il commissario, intanto, disporrà dei «pieni poteri» e di tutte le «funzioni degli organi di amministrazione dell’impresa» e potrà avvalersi di due subcommissari nominati dai ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente. Quest’ultimo nominerà, a sua volta, un comitato di cinque esperti in materia di tutela dell’ambiente e della salute che, «sentito il commissario straordinario», avrà il compito di proporre al ministro, «entro 60 giorni dalla nomina e in conformità alle previsioni delle norme comunitarie e delle leggi nazionali e regionali, il piano delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitaria dei lavoratori e della popolazione e di prevenzione del rischio di incidenti rilevanti».
Al termine di questa fase di «gestione eccezionale e straordinaria», ha dichiarato martedì mattina in aula alla Camera il ministro dello Sviluppo economico Flavio Zanonato, «potranno essere ricostituiti gli ordinari organi di amministrazione restituendo i suoi poteri alla proprietà». Le preoccupazioni, però, non mancano. L’Ilva, «opera ciclopica», come amò definirla Paolo VI in visita allo stabilimento nel lontano e caldo 1968, «intreccio incomprensibile di macchine e di energie», è la più grande acciaieria d’Europa, una tra le più grandi al mondo, e dà da lavorare ad almeno 20 mila persone, 40 mila con l’indotto, senza considerare il beneficio recato a terzi. Per rendere l’idea delle sue dimensioni, basti considerare che si estende su una superficie di 15 chilometri quadrati, il doppio della città.
Eppure questo stabilimento che tutto il mondo ci invidia, esce da una stagione difficile, fatta di dure prove che, qualora si dovesse concludere negativamente, potrebbe recare gravissimi danni all’industria italiana e costare al paese la bellezza di almeno 8 miliardi di euro all’anno, imputabili, secondo il ministro Zanonato, per circa «6 miliardi alla crescita delle importazioni, per 1,2 miliardi al sostegno al reddito (dei dipendenti, ndr) e ai minori introiti per l’amministrazione pubblica e circa 500 milioni in termini di minore capacità di spesa per il territorio». I punti di Pil persi in caso di chiusura dell’Ilva, secondo il deputato Pdl Raffaello Vignali della commissione Attività produttive, commercio e turismo, potrebbero essere quasi tre: oltre ai miliardi persi direttamente a Taranto per un punto pieno, ce ne sarebbero altri due, pari a quasi 30 miliardi di euro che coinvolgerebbero le imprese di trasformazione dei semilavorati dell’acciaio, l’industria degli elettrodomestici, l’edilizia, la meccanica e il mercato dell’automobile. Tutti settori che letteralmente si nutrono di acciaio e che rappresentano, oltre che il fiore all’occhiello della nostra economia, la linfa vitale del tessuto produttivo italiano. Per non parlare, poi, del vuoto occupazionale che si verrebbe a creare e che difficilmente sarebbe colmabile anche solo nel medio periodo.
Il duro braccio di ferro
L’ultimo campanello d’allarme, almeno in ordine di tempo, è suonato qualche settimana fa. Come riferito da Federacciai, la Confindustria dell’acciaio, sono già in aumento le importazioni in Italia: nel primo trimestre del 2013 ne sono arrivate 619 mila tonnellate, provenienti da paesi esterni all’Unione Europea (+46,5 per cento rispetto al 2012) e 607 mila tonnellate da paesi membri (+13,2 per cento rispetto al 2012). Numeri che vanno a riempire i “buchi” lasciati liberi dall’Ilva quando, dopo il sequestro, è stata avviata la procedura di spegnimento dell’area a caldo, poi interrotta. La quota italiana sul mercato europeo, intanto, si è ridotta dal 17 al 14,8 per cento e sarà difficile recuperarla.
«A crescere in termini percentuali», spiega il Sole 24 Ore, «sono gli operatori extra Ue più aggressivi, come i turchi e i russi, ma anche solide realtà già ben strutturate nei centri servizi italiani, come indiani e coreani». I cinesi nemmeno sono da sottovalutare: rispetto a qualche anno fa, infatti, «oggi gli operatori orientali possono vantare una struttura migliore e un’organizzazione capillare». Così come non sono da sottovalutare i nostri più diretti concorrenti: non è un caso che siano «aumentate le quote di produzione di Germania (da 24,7 a 26,1 per cento) e Regno Unito (da 4,3 a 6,6 per cento)» così come di molti altri operatori continentali.
Mentre l’Ilva e i suoi dipendenti combattono la battaglia per la sopravvivenza – loro e di una fetta importante dell’industria –, il gruppo Riva, proprietario dello stabilimento di Taranto dal 1995, è da tempo invischiato in un braccio di ferro tra istituzioni che vede da un lato il Tribunale locale, e dall’altro due governi, quello tecnico dell’ex premier Mario Monti e quello politico del presidente del Consiglio in carica Enrico Letta. O almeno così sembra, da quando la procura tarantina si è messa di traverso, aprendo un fascicolo per reati ambientali, connessi a omissioni organizzative e gestionali da parte del gruppo, a motivo degli annosi problemi di inquinamento dell’aria, del suolo e delle acque, dovuti all’emissione di diossina e altre polveri causate dal processo di lavorazione dell’acciaio e che assillano la provincia di Taranto fin dai tempi dell’Iri, quando l’Ilva si chiamava ancora Italsider ed era posseduta e gestita dallo Stato.
Il contenzioso cominciato nel 2008, l’anno scorso dopo l’acquisizione da parte della procura di due perizie, una di carattere chimico-ambientale e l’altra medico-epidemiologico, è culminato con il sequestro degli altiforni 1 e 5 e delle cockerie 5 e 6 dello stabilimento tarantino, le cosiddette “aree a caldo”, predisposto dal gip Todisco. Seguito, a stretto giro, dal sequestro dei prodotti finiti e quelli semilavorati giacenti nelle aree di stoccaggio e già pronti per essere commercializzati, per un importo pari a quasi 1 miliardo di euro.
Posizioni controverse
L’esito delle due perizie, in realtà, è tutt’ora di controversa interpretazione e seriamente messo in discussione dal fatto, ricordato più volte dall’ex ministro all’Ambiente Corrado Clini, che l’ultima perizia epidemiologica redatta dall’Istituto superiore della sanità e i dati pubblicati dall’Osservatorio regionale dei tumori della Puglia «dimostrano che questo eccesso di mortalità di cui si parla a Taranto non ha riscontro». Per esempio, «il tasso di mortalità a Lecce è superiore». Sono numeri che andrebbero «letti e studiati, ma che non fanno comodo a quelli che fanno propaganda e strumentalizzano la morte per avere ragione politicamente».
A chiarire la posizione dei giudici di Taranto è stata recentemente la Consulta nelle argomentazioni della sentenza sulla legittimità costituzionale del decreto legge numero 207 del 3 dicembre 2012 (ora legge 231/2012), quello che la stampa ha ribattezzato come il primo decreto “salva-Ilva” e che conferisce dignità di legge alla nuova Aia, il cui padre putativo è proprio l’ex ministro Clini. E nei confronti del quale la procura ha sollevato a gennaio eccezione di incostituzionalità.
Alla domanda se «il diritto alla salute sia realmente suscettibile di un bilanciamento» con la tutela del diritto al lavoro, spiega la Corte costituzionale, il rimettente, il gip di Taranto, ha dato una risposta «implicitamente negativa». Per motivarla, precisa la Consulta, «vengono trascritti (dai ricorrenti, ndr) ampi stralci della Relazione (approvata il 17 ottobre 2012) della Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti», allora presieduta da Gaetano Pecorella e che interessava anche il sito di Taranto, dove si afferma che «per un verso nessun interesse di carattere economico-produttivo potrebbe legittimare la lesione del diritto alla salute, e per l’altro, che una lesione siffatta sarebbe già stata irrimediabilmente recata alla popolazione di Taranto». Motivo per cui, secondo la procura, la chiusura dell’impianto per procedere al risanamento sarebbe stata l’unica soluzione possibile rimasta. Senza considerare i danni che ciò avrebbe potuto causare all’azienda e all’occupazione. Con ricadute economiche importanti, peraltro, sul processo di risanamento e di bonifica del territorio, di fatto, messi a repentaglio. La drammatica vicenda dell’Ilva, ad ogni modo, ora sembra aver trovato la strada verso un’equilibrata soluzione. Già la nuova Aia, rilasciata in sede di riesame il 26 ottobre 2012, riconoscendo allo stabilimento di Taranto lo status di sito di «interesse strategico nazionale» (articolo 3), consente all’Ilva di riprendere la produzione nelle aree cui erano stati apposti i sigilli e di rientrare in possesso dei prodotti sequestrati alla fine del 2012, a patto che i vertici si impegnino a definire un cronoprogramma per il risanamento dello stabilimento e a investire su nuovi modelli di sorveglianza sulle emissioni di sostanze nocive. Compito che ora passa nelle mani del commissario Bondi e del suo team.
La via da seguire per il risanamento, come dichiarato a Tempi dall’ex ministro Clini e come effettivamente previsto dall’Aia (all’articolo 1), è quella «di adottare a partire dal 2012 tecnologie da impiegare per minimizzare i rischi per l’ambiente e la salute, fissati dall’Unione Europea e che entreranno in vigore nel 2016». Obiettivi per i quali – a farlo notare è sempre stato Vignali – gli industriali tedeschi hanno da tempo chiesto una proroga di sei anni. Le prescrizioni contenute nella nuova Aia, come spiega ancora la Corte costituzionale, mirano semplicemente a «escludere che i provvedimenti di sequestro, presenti o futuri, possano impedire la prosecuzione dell’attività produttiva». E non «rendere a posteriori lecito ciò che prima era illecito», come avrebbe voluto, invece, la procura. Qui si tratta semplicemente di garantire la «facoltà d’uso» dello stabilimento, «salvo che, nel futuro, vengano trasgredite le prescrizioni dell’Aia». La «deviazione da tale percorso, non dovuta a causa di forza maggiore», implicherebbe «l’insorgenza di precise responsabilità penali, civili e amministrative». La Corte, a riguardo, è incrollabile: se il processo nei confronti del gruppo Riva dovesse accertare delle responsabilità oggettive (finora sono emersi soltanto illeciti amministrativi), la giustizia farà il suo corso. Ma la produzione deve essere salvaguardata. Il «punto di equilibrio» da trovare che finora ha rappresentato il faro della Consulta e del governo, è quello tra la tutela del lavoro, della salute e dell’ambiente. «Beni corrispondenti a diritti costituzionalmente protetti». Quel «punto di equilibrio» o «bilanciamento» che, invece, è parso impossibile raggiungere ai giudici di Taranto.
La strada è ancora tutta da percorrere, ma intanto il provvedimento ha incontrato il parere positivo di un attento osservatore delle vicende locali, l’arcivescovo di Taranto, monsignor Filippo Santoro, che a Tempi ha dichiarato: «Il decreto del governo, che deve tener conto del risanamento ambientale e della continuità produttiva, deve darci un appiglio». In che senso? «Ho sempre offerto il mio sostegno alla gente e alimentato la speranza del popolo di Taranto, sostenendo la difesa della salute, dell’ambiente e del lavoro, ma ora attendiamo tutti quanti segni concreti, un appiglio tecnico e pratico da parte dei responsabili della politica nazionale». Segni che «impegnino l’azienda in una effettiva e rigorosa opera di risanamento ambientale, permettendo al tempo stesso la continuità del lavoro». E il primo passo, finalmente, è stato fatto.