La scorsa settimana ho letto una celebrazia dello spot della pallavolo. È quella pagina in cui si vede un’edificante bastonatura degli hooligans in occasione di Italia-Inghilterra dell’ottobre ’97 all’Olimpico e si suggerisce a mamma e papà di mandare i ragazzi a giocare a pallavolo. La pubblicità comparativa, ora, è concessa anche nel nostro Paese ed è un bene, perché, ad esempio, certi spot americani della Pepsi Cola contro la Coca Cola, sono assolutamente esilaranti. Però, senza moralismi, come dice un famoso allenatore (forse il migliore di tutti) bisognerebbe essere senza peccato per scagliare la prima (ma anche la seconda e la terza) pietra. Chi ha fatto quella pubblicità ha omesso due particolari non irrilevanti: 1) al volley si menano come al football, certo meno, perché, escluse alcune piazze, i palazzetti sono mezzi vuoti; 2) la Pepsi Cola può permettersi il lusso di irridere la Coca Cola, perché è una concorrente, e non una dipendente. La pallavolo, come tutti gli altri sport italiani, si regge sulla redistribuzione dei proventi del Totocalcio (e derivati) che si gioca tutte le domeniche sulle partite programmate, orrore, in quegli stadi infrequentabili. Lo sport, in Italia, si regge sul football. Infatti, ora che la schedina è un po’ in crisi, la torta è più piccola. Per cui, sarebbe stato meglio invitare la gente a non andare in discoteca, a teatro o per funghi, o fenomeni della pallavolo.
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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