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Il Sole e Confindustria, quanti talenti sprecati

Il gigantismo dell'organizzazione è imperdonabile, una stonatura nonostante i servizi, non so se tutti utili, che offre alle imprese. È una macchina ingombrante che alla fine si è ingrippata

Giuliano Ferrara
19/03/2017 - 6:00
Economia
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Il direttore non è la mia tazza di tè, parlo di Roberto Napoletano, ma anche i comitati di redazione sono spesso respingenti. La colleganza è odio vigilante, dunque non sparlerò dell’indagato, gli indagati sono un punto d’onore e una primizia fresca per noi garantisti. Tanto più che al momento in cui scrivo lo immagino dimissionario, e non è il momento opportuno per dargli giù. Parlerò invece dell’editore, la Confindustria. L’ho sempre detestata. Non ricordo chi diceva, forse quel genio del Cav., che nelle imprese quello bravo fa i quattrini e quello scemo lo mandano in Confindustria. Esageratamente spiritosa, la battuta. E non sono tutti scemi quelli di Confindustria, ma è scema l’idea stessa di Confindustria, dopo le stagioni in cui funzionava in senso anticomunista come i Comitati Civici degli imprenditori, ah la storia, che cruccio, quindi l’idea è scema da molti anni.

Confindustria ha un grande palazzo all’Eur di Roma, molte belle sedi, molte trasferte per trasfertisti professionali, molti funzionari, un ufficio studi che le azzecca come le azzecco io, più o meno, come le azzecchiamo tutti, insomma nisba. I suoi presidenti sono eletti in base a un sapiente e cerimoniale meccanismo cooptatorio che fa perno, guarda un po’, sui past president, formula anglosferesca ridicola per dire ex presidenti. Fa tanto istituzione liberale, ma è la stessa cosa che faceva nel Pci il compianto Armando Cossutta quando avviava su incarico della segreteria le consultazioni per eleggere i capi, che naturalmente (ambisce allo spiritoso anche chi mangia i bambini) finirono per essere chiamate le “cossuttazioni”. Il gigantismo di Confindustria è imperdonabile, una stonatura nonostante i servizi, non so se tutti utili, che offre alle imprese, nonostante le foresterie che mi hanno talvolta gentilmente accolto per parlare con i past president, come succhiare un bottone, nonostante un po’ tutto. Una Round Table come in Inghilterra o un più significativo e modesto Movimento come in Francia sarebbero le benvenute, e la chiusura di Confindustria è il sogno inconfessato dei migliori imprenditori italiani che se la pagano (parlo non per sentito dire).

Confindustria dice sempre le cose giuste, ma le dice per finta. Anche con Antonio D’Amato e Stefano Parisi, che volevano ridimensionare la Fiat, Agnelli vivo e vegeto, e per questo spaccarono i sindacati lungo una linea riformista, naturalmente sull’articolo 18, o No Jobs Act, in accordo con noi berlusconidi, e questo molti anni fa, alla fine contrattarono con l’esimio elusivo e callido Giulio Tremonti du’ lire due di esenzione fiscale, o anche di più, per mettere tutto a tacere, perfino sé stessi, in nome dell’interesse dei signori associati. Non era ancora il tempo di Trump e delle rivoluzioni contro i rischi fatali e il mundus furiosus, sotto il segno dell’impostura, era il tempo eterno dell’inciucio sotto il segno del volemose bene. E questo è il momento alto dell’esperienza contemporanea di Confindustria.

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Per il resto molta concertazione quando si concertava, proporzionale quando si proporzionalizzava, wait and see, direbbero i past president, e niente battaglie serie, niente riformismo armato, un tran tran fiacco agli occhi di noi liberali byroniani, pieni di disperazione e di fiducia nell’avvenire di tutte le patrie, tranne la nostra che si vedeva a occhio nudo vivacchiare solo ed esclusivamente sul suo splendido passato tradito. Che una siffatta associazione, camera di incubazione per steward e bolsi patron di eccezionale incultura, potesse anche credibilmente essere editore di un grande quotidiano finanziario e politico e culturale (la Domenica l’hanno azzeccata, per sbaglio, come IL Magazine), bè, l’ho sempre trovata grossa. Ho lavorato una stagione anche per la loro radio, ma di nuovo era come succhiare un bottone, lì bisogna fare come Cruciani & Parenzo, affidarsi al gusto scollacciato e surreale dei siori tassisti di tutte le latitudini, bisogna essere veramente snob. Per il resto, il Gran Banale. Fino al famoso titolo: “FATE PRESTO!”, che quel genio di Giuseppe De Filippi ha trasformato nell’occasione presente in: FATE PRESTITO!

Confindustria editore, anche nei tempi delle vacche grasse, quando le cose andavano bene a copie vendute e pubblicità raccolta e orgoglio di bandiera, naturalmente con tante cose di qualità sommerse nel ristagno della volontà civile e della conversazione politica con scopi chiari e forti, è sempre stata un Cecè, un viveur pirandelliano. Molti galantuomini e donne di talento, tutti sprecati in una macchina ingombrante che alla fine si è ingrippata per noncuranza o altro. Va notato che Confindustria, con Agnelli, stipulò con Lama il patto della scala mobile, una schifezza sotto ogni punto di vista, anche quello dell’interesse dei lavoratori e del capitalismo che è il rapporto sociale in cui essi sono inseriti, o erano. Da craxiano la osteggiavo, qualche referendum l’ho vinto anch’io e su basi meno effimere di quello recente, e non ho più smesso di antipatizzare. Di Napoletano non parlo male, ma non so se mi sono spiegato, Confindustria andrebbe rimossa come un ferrovecchio, se la parola fosse ancora in corso andrebbe rottamata.

@ferrarailgrasso

Foto Ansa

Tags: confindustriasole 24 ore
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