
Il sacrificio dei cristiani sulle linee di faglia della guerra mondiale a pezzi

La Chiesa è tornata al centro dell’attenzione mondiale in questi ultimi mesi. Anche perché è sembrata legare ancora una volta a sé il destino degli uomini, come ha plasticamente reso evidente il colloquio immortalato nella basilica di San Pietro tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky in occasione dei funerali di Francesco. Addirittura, ora pare che il Vaticano possa accogliere trattative tra una delegazione ucraina ed un’altra russa, vista la disponibilità del nuovo papa: «La Santa Sede è a disposizione perché i nemici si incontrino e si guardino negli occhi», ha detto il nuovo Pontefice ai partecipanti al Giubileo delle Chiese orientali.
L’elezione di Leone XIV ha poi acceso un dibattito mediatico sul primo pontefice nordamericano: continuerà a dare voce al sud globale come fece Bergoglio nei suoi incontri con i Movimenti popolari, le sue critiche alla globalizzazione dell’indifferenza e alle colonizzazioni ideologiche da parte del relativismo occidentale? Sarà capace di essere critico verso l’attuale amministrazione statunitense o farà prevalere il giudizio di un ex iscritto alle liste dei repubblicani per le primarie?
Operazioni, sia consentito, anche di piccolo cabotaggio politico e di chi riduce sempre il Conclave di Santa Romana Chiesa ad una resa dei conti tra correnti di partito. Se si prova ad alzare lo sguardo, ad andare un po’ più in profondità, e innanzitutto ad ascoltare, ci si rende conto che papa Prevost ha già perfettamente inserito il suo pontificato nel magistero con cui la Chiesa di questo primo quarto di secolo offre al mondo come criterio e guida il suo patrimonio di storia e saggezza.

La guerra mondiale a pezzi
È dalla prima elezione alla Casa Bianca di Trump che gli esperti parlano di “fine di un mondo”. Con esso i più identificano la crisi dell’ordine liberale, che dopo il crollo del muro di Berlino sembrava destinato ad espandersi e comprendere tutto l’orbe terraqueo. In verità, ormai molti concordano che con esso non si deve intendere tanto il liberalismo classico che, proprio in Occidente, ha saputo costruire nei secoli un sistema di tutele e garanzie per la persona. Si deve intendere piuttosto quel modello di sviluppo ben identificato dallo slogan con cui Bill Clinton vinse le presidenziali del 1992: «It’s the economy, stupid!».
Con l’avvento di Trump, e più in generale dei populismi, è finito quel mondo che si era illuso di poter rispondere efficacemente con la globalizzazione del mercato (e l’esportazione della democrazia “sulla punta delle baionette” di G. W. Bush) a tutti i bisogni dell’uomo, anche quelli non “solvibili”, né “vendibili”, che non hanno un potere d’acquisto, come il bisogno personale di riconoscimento, di identità e di senso. La crisi finanziaria del decennio 2008 – 2018 ha fatto crollare il castello di carta. Trump e i populismi sono stati l’effetto e non la causa della fine di quel mondo.
Conflitti per procura
Nel frattempo, nel 2007 la Russia – con il celebre discorso di Vladimir Putin alla conferenza sulla sicurezza di Monaco – prende le distanze dall’Occidente, accusando gli Stati Uniti di non rispettare il diritto internazionale e metterne in crisi l’ordine mondiale. Due anni dopo Mosca promuove insieme a Pechino la nascita dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) quale contraltare al G7, a cui si aggiungeranno Iran, Etiopia, Egitto ed Emirati Arabi. Nello scorso ottobre, a Karzak, queste nazioni compiono un salto di qualità, con il lancio dell’idea di una valuta comune virtuale chiamata R5 (dalle iniziali delle loro cinque monete: reais, rublo, rupia, renminbi e rand), che – sul modello della vecchia ecu, antesignana dell’euro – faciliti il libero scambio nelle transazioni tra le economie dei Brics.
Questo schierarsi delle economie emergenti, che, sommate, rappresentano quasi la metà della popolazione terrestre e il 35 per cento del Pil mondiale, è sostenuto dall’idea del “sud globale” contro l’egemonia del nord dell’emisfero occidentale, capitalistico e sfruttatore. Un’idea che vede nel conflitto israelo-palestinese una vicenda paradigmatica, che finisce però per servirsi a fini propagandistici del dolore (vero e insopportabile) della popolazione di Gaza e alimentare un preoccupante antisemitismo di ritorno. Un’idea che sembra così giustificare e armare i promotori di quella che papa Francesco, già sul volo di ritorno dalla Corea del sud nel 2014, aveva chiamato “guerra mondiale a pezzi”. Con essa il papa, venuto “dalla fine del mondo”, intendeva identificare l’insieme di più conflitti che avvengono per procura, in cui, cioè, lo scontro non è mai diretto tra potenze, ma vede spesso il sostegno militare ad attori locali (come gli ucraini armati da Usa e Ue contro l’aggressore russo o le organizzazioni terroristiche di Hamas, Hezbollah e gli Houthi sostenute dall’Iran contro Israele).

I cristiani e le faglie di civiltà
Leone XIV nella sua prima benedizione urbi et orbi seguita all’habemus papam, ha incentrato tutto il suo saluto ai fedeli sulla pace, riprendendo quello di Cristo risorto ai suoi discepoli: «La pace sia con voi». Nella recita del suo primo Regina Coeli ha poi citato i predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo II con il grido: «Mai più la guerra!». E, ancora una volta, nel discorso rivolto il 14 maggio ai partecipanti al Giubileo delle Chiese orientali, Prevost ha ricordato quanto queste conoscano «da vicino gli orrori della guerra, tanto che papa Francesco chiamò le vostre Chiese “martiriali”». Infatti, nella dissoluzione del vecchio mondo e nella lotta delle potenze “guida” per conquistarsi spazi di egemonia nell’ambito o ai confini delle rispettive civiltà, una menzione particolare la meritano proprio le chiese e le comunità cristiane.
In questo primo quarto di secolo il mondo sembra vivere la rivincita della teoria di Samuel Huntington dello “scontro di civiltà” su quella di Francis Fukuyama relativa alla “fine della storia”. Ora, lo scontro di civiltà si sta verificando in un contesto ancora più complesso e di gran lunga più instabile di quello di fine XX secolo, a motivo di diversi conflitti regionali in cui si inseriscono le maggiori potenze emergenti per trarne vantaggi a danno di quelle avversarie, come ad esempio in Africa per opera dei famigerati russi della Wagner o delle compagnie cinesi.
I cristiani spesso si trovano così su quelle faglie in cui, proprio secondo la celebre teoria di Huntington, si verificano conflitti locali tra stati limitrofi, ma appartenenti a civiltà diverse. Esiste una linea immaginaria che dall’Europa dell’Est scende fino al corno d’Africa e alle regioni subsahariana e del Sahel, passando per il Caucaso e il mosaico mediorientale, e attraversando l’Atlantico giunge all’America centrale per poi attraversare il Pacifico e separare le due Coree. Lungo questa linea di faglia le diverse confessioni cristiane si trovano spesso in mezzo alle parti in conflitto, rischiando di essere precipitate nelle fratture che i sommovimenti geopolitici di quella zona del mondo provocano.
Dalla Russia al Medio Oriente
Succede in Ucraina, dove nel 2024 il Parlamento ha vietato di operare all’interno della Nazione a qualsiasi «organizzazione religiosa subordinata a quelle del Paese aggressore», cioè alla Chiesa ortodossa russa. In questo modo Kiev limita la libertà religiosa di molti ucraini, già ostaggi della strumentalizzazione politica del Patriarcato di Mosca, in ossequio al quale ci si trova ad appartenere ideologicamente al Ruskij Mir (Mondo russo), di cui Putin sarebbe l’alfiere.
I cristiani sono perseguitati nel Caucaso, dove nel conflitto tra Armenia e Azerbaigian, i russi ortodossi hanno deciso di non ostacolare gli alleati azeri nella riannessione del Nagorno-Karabakh, con 115 mila armeni che hanno dovuto abbandonare case, proprietà, antichissime chiese e monasteri a militari musulmani armati dalla Turchia di Erdogan. Hanno sofferto e soffrono in Iraq e in Siria, dove il Daesh e la galassia di ribelli e jihadisti sunniti, finanziati e incoraggiati da Ankara e Qatar, hanno prima occupato la piana di Ninive e cacciato i cristiani, poi tenuto in ostaggio le più antiche comunità “schiacciate” tra l’asse sciita da un lato, con Teheran ed Hezbollah in appoggio al regime di Assad, e dall’altro le forze rappresentate da Al-Jolani che ora hanno il controllo del governo di Damasco. Ancora in Medio Oriente le comunità cristiane soffrono nel conflitto tra Hezbollah e Israele nel sud del Libano, in quello tra l’esercito di Tel Aviv e gli uomini di Hamas.
Dalla Nigeria alla Nord Corea
E ancora: nel Sahel, ed estendendo lo sguardo in quella grande faglia che separa l’Africa del nord alle coste meridionali dell’Europa, un mix di cambiamenti climatici e instabilità politica regionale non sta solo creando una crisi umanitaria, che giustifica le migrazioni di milioni di persone verso il Mediterraneo, ma anche armando gruppi di jihadisti che prendono di mira i cristiani nell’intento di rovesciare i governi retti da musulmani “miscredenti” per instaurare un più autentico Stato islamico. È il caso delle scorribande tra Ciad, Nigeria, Niger e Camerun di gruppi come Boko Haram, che dal 2015 è affiliata all’Isis ed intenzionata a instaurare un grande califfato nell’Africa subsahariana, dove si contano oltre 16 milioni di cristiani sfollati, esausti dai continui attentati che ogni domenica sventrano le chiese piene di fedeli, dalle figlie rapite e ridotte a schiave sessuali e dai figli convertiti con la forza all’Islam e arruolati nella guerriglia.
La linea immaginaria prosegue, arrivando alla faglia che divide il continente americano. In Nicaragua, stato in cui la Cina è insidiosa più che altrove, la Chiesa sta conoscendo una persecuzione che sembrava relegata ad epoche passate: nel 2024 il rapporto di Christian Solidarity Worldwide (Csw) ha contato 222 violazioni della libertà religiosa e 46 casi di detenzione arbitraria tra vescovi e religiosi. Probabilmente è un caso, ma da quando Pechino ha promesso di sviluppare grandi infrastrutture nel Paese (tra cui la costruzione di un canale alternativo a quello di Panama), il regime di Ortega ha scatenato la sua repressione contro la Chiesa cattolica. E probabilmente è sempre un caso che l’inasprimento, a seguito della rottura formale dei rapporti tra Nicaragua e Taiwan a vantaggio di quelli con Xi Jinping, si verifichi dopo che la Chiesa locale ha ottenuto in dote le proprietà di Taipei.
La faglia, infine, attraversa il Pacifico e giunge alla frontiera tra Pyongyang e Seul: sotto il regime di Kim Jong-un – alleato strategico di Putin, che ne ha coinvolto i militari nella guerra in Ucraina –, chi viene anche solo sorpreso in possesso di una Bibbia viene ucciso o condotto in campi di prigionia del regime comunista.
La libertà della fede
È ancora alle Chiese orientali che Leone XIV ha ricordato quanto «ai cristiani va data la possibilità, non solo a parole, di rimanere nelle loro terre con tutti i diritti necessari per un’esistenza sicura». Tale sottolineatura risulta fondamentale, e va letta insieme a quanto rivolto invece al corpo diplomatico accreditato presso la Santa sede. Il 16 maggio papa Prevost ha detto agli ambasciatori di ritenere fondamentale «il pieno rispetto della libertà religiosa in ogni Paese, poiché l’esperienza religiosa è una dimensione fondamentale della persona umana, tralasciando la quale è difficile, se non impossibile, compiere quella purificazione del cuore necessaria per costruire relazioni di pace».
Del resto, è proprio sulla riduzione dell’uomo a mero consumatore e sulla “soggettivizzazione” della dimensione religiosa che hanno mostrato la corda la pretesa egemonica dell’american way of life e la globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi. La purificazione del cuore necessaria alla pace è quanto documentano proprio le comunità cristiane con le loro opere educative, con cui spesso formano e istruiscono le élite delle società in cui pur in minoranza si trovano ad operare. O i loro ospedali, dentro i quali si prendono cura anche dei più reietti, o di quelli che pure li vorrebbero allontanare dalla propria nazione. I cristiani rappresentano spesso, così, un ponte di dialogo ed un fattore di equilibrio, costituendo al tempo stesso l’unica reale alternativa allo “scontro di civiltà”. Solo così, ha detto ancora papa Leone ai diplomatici, «si possono sradicare le premesse di ogni conflitto e di ogni distruttiva volontà di conquista».
Critica della potenza
La presenza di comunità autenticamente cristiane come garanzia di risposta a quell’anelito di pace insito nel cuore di ogni uomo, al di là di ogni tentazione egemonica: questo è il contributo offerto dal magistero pontificio al dibattito internazionale sul nuovo ordine che si sta delineando nel nostro XXI secolo. È la pace di Cristo, come ha precisato il nuovo pontefice alle Chiese orientali, che «non è il silenzio tombale dopo il conflitto, non è il risultato della sopraffazione, ma è un dono che guarda alle persone e ne riattiva la vita». È la presenza di uomini e donne che vivono il Vangelo, perdonando i torti subiti, “rimettendo i debiti” l’uno all’altro, dando da mangiare agli affamati e vestendo gli ignudi, istruendo gli ignoranti e curando malati ed anziani, sempre più spesso “scartati” – anche nel nostro Occidente così attento a parole ai diritti umani.
Eppure, il magistero pontificio di inizio XXI secolo sembra rilevare che nemmeno tutta questa carità può bastare a edificare la pace. Quando Leone, infatti, ricorda di fronte alle Chiese orientali «quanta violenza» scorre «dalla Terra Santa all’Ucraina, dal Libano alla Siria, dal Medio Oriente al Tigray e al Caucaso», egli lo fa per sottolineare la forma suprema della carità cristiana, il dono di sé totale, fino al sangue. In effetti il report annuale della Ong Open Doors calcola che, nel mondo, su sette cristiani uno è perseguitato. Il rapporto diventa di uno su cinque se si sofferma lo sguardo sull’Africa e addirittura di due su cinque in Asia. Open Doors calcola che nell’ultimo anno siano stati circa 380 milioni i cristiani perseguitati nel mondo. Si tratta della comunità più colpita del globo, che conta la maggioranza delle persone ogni anno vittime dell’intolleranza nei confronti di quanti hanno una qualsiasi fede.
L’impegno di Leone XIV
Senza addentrarsi nel significato escatologico di questa «folla immensa che nessuno poteva contare» (Ap 7,9), i martiri ancora oggi attraversano la vicenda umana, caratterizzati persino da un ecumenismo del sangue che unisce cristiani di differenti confessioni, e rappresentano il limite più grande alle pretese totalitarie di qualunque potere dell’uomo sull’altro uomo. Con la loro testimonianza di fedeltà al Vangelo fino al sacrificio di sé, questi uomini e donne costituiscono il freno alla corsa, apparentemente inarrestabile, di ogni progetto che vede l’individuo quale mero ingranaggio di una più grande macchina da guerra, statale, etnica o religiosa che sia.
Essi sono dunque il riferimento vivente a quanto proprio la Scrittura mette in bocca agli stessi martiri: «La salvezza appartiene al nostro Dio che siede sul trono, e all’Agnello» (Ap 7,10). E non a qualsivoglia volontà di potere. Con la loro sola presenza fisica, dunque, le comunità cristiane costituiscono in radice una critica alla potenza. E questo è il compito assegnato ai testimoni della fede anche nell’attuale fase di lotta per l’egemonia sul mondo delle diverse civiltà e dei loro stati guida. È la pace di Cristo, «non come la dà il mondo» (Gv 14,27). È la pace per cui papa Leone ha promesso: «Io impiegherò ogni sforzo».
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1 commento
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Molto bello, peccato per l’assenza della Cina