
Il ritorno dei Red Hot Chili Peppers
Perchè recensire il nuovo lavoro dei Red Hot Chili Pepper? Cosa rimarrà nella storia del rock di questo pugno di canzoni? E ci interessa che John Frusciante sia uscito definitivamente dal gruppo? Siamo stati sommersi da interviste ai componenti, (Flea, Kledis, Chad e il nuovo arrivato Klinghoffer) molti giorni prima dell’uscita del cd, e il quartetto ci ha svelato che per loro è giunta finalmente l’età della maturità, alle soglie dei 50, vivendo la paternità, andando a scuola di musica, stravedendo per Bach, leggendo Cechov. Ci hanno confessato di essere alla ricerca di un modo di ripartire musicalmente, dopo il successo di Stadium Arcadium. Dopo aver attraversato gli anni burrascosi e trasgressivi del funk – punk – rock borderline, trascinandosi con droghe e disintossicazioni, senza soluzioni di continuità, affrontando depressioni e liti. Ci hanno confessato che sono dei “survivor”, sopravvissuti agli 80 e 90, ieri strafatti ora salutisti, ieri cantando testi sul degrado metropolitano, oggi affrontando confusamente il tema della morte e raccontare di “Annie che vuole avere un bambino”.
Accompagnati da una roboante macchina promozionale, con annessa anteprima in concerto trasmesso “live” nei cinema di tutto il mondo, con il loro funk rock, molto addolcito rispetto alle origini, i R.H.C.P. sono uno di quei pochi gruppi che, mescolando i generi, hanno da subito avuto un successo planetario (sono milioni i dischi venduti) e a partire da Californication (1999) stanno cercando furbescamente di allargare il loro target, infilando nel repertorio ballate alla Beach Boys, accaparrandosi i rockettari più teneri. E lo fanno a palate nel nuovo I’m with you, prodotto e super confezionato dal mago Rick Rubin, che li segue da vent’anni. Per questo lavoro, Rubin ha costruito per il gruppo, un wall of sound che rasenta la perfezione. E loro si sono dati da fare con giri di basso, che al pubblico più scafato ricordano addirittura gli Electric Light Orchestra di Last Train to London, i Queen di Another one bites the dust e il George Harrison di Give me love. Anche se la cifra compositiva è piuttosto ripetitiva, il risultato è gradevole e divertente. Successo assicurato, anche se aumenteranno i fans della prima ora, che storceranno il naso, per la irreversibile, ormai, deriva pop di Kledis & co.
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