Il premierato non è un attentato alla Costituzione
La Costituzione italiana, si sa, è pressoché intoccabile. D’altronde, se è “la più bella del mondo” – come molti sostengono – perché cambiarla? Eppure, a lungo andare, baloccarsi in questo mito potrebbe rivelarsi pernicioso. È impensabile infatti, come ha sostenuto Alessandro Sterpa, autore di Premierato all’italiana. Le ragioni e i limiti di una riforma costituzionale (UTET, 2024), ritenerla una sorta di “mummia da museo” che va preservata da ogni cambiamento. I tempi cambiano e un aggiornamento di certi meccanismi potrebbe essere utile proprio per difendere la Costituzione dal corso del tempo e renderla in grado di svolgere meglio la propria attività.
Costituzionalista e professore di Diritto costituzionale e pubblico nell’Università della Tuscia, Sterpa è impegnato dal 2022 con l’associazione “Io cambio” per promuovere un’idea di cambiamento attraverso le riforme costituzionali. Nel libro cerca di spiegare le ragioni di una riforma, quella del premierato voluta dall’attuale Governo, e in fase di revisione, senza alcuna pregiudiziale, ma anzi vedendovi una possibilità di positiva innovazione per il sistema del Paese.
Professor Sterpa, fin dalla premessa lei parla di una riforma che serve al Paese, perché permetterebbe una maggiore stabilità e una forza decisionale che al momento latita. Nel concreto, perché vedere in questa riforma una possibilità di svolta?
Per l’incapacità del sistema politico di decidere e di concretizzare le proprie decisioni, i migliori italiani non si dedicano alla politica: non possono dare, attraverso di essa, il proprio contributo al Paese. Una impotenza certificata: la Corte costituzionale ha invitato il Parlamento ad adottare norme dove mancavano regole chiare, dal “caso Cappato” sul suicidio assistito di dj Fabo, alle coppie omosessuali e all’ergastolo ostativo. “Governi tecnici” o di unità nazionale risolvono le crisi dopo che la politica non ha governato. La doppia rielezione del presidente della Repubblica supplisce alla breve durata dei governi e alla incapacità di avere un indirizzo politico. Non ci sono più i partiti del Novecento che garantivano qualche decisione e l’unico modo è rimettere al centro l’elettore che sceglie da chi essere governato e successivamente valuta se confermare o cambiare i propri governati come accade già per le Regioni e per i Comuni. Come propose l’Ulivo di Prodi nel dicembre 1995. Quella del premierato è una proposta che rafforzerebbe la capacità decisionale della politica sotto il controllo dell’elettorato e degli altri organi costituzionali.
Cosa si potrebbe ulteriormente migliorare, secondo lei? Quali sono i punti critici su cui intervenire?
Il primo miglioramento possibile potrebbe essere alzare a tre quinti la maggioranza per eleggere il presidente della Repubblica che oggi è, dopo il terzo scrutinio, assoluta. Non è una priorità ma sicuramente aiuterebbe a condividere l’idea di un Capo dello Stato non eleggibile – come invece è adesso – dalla sola maggioranza di governo. I regolamenti parlamentari inoltre potrebbero prevedere uno statuto di garanzia per l’opposizione. Infine un terzo miglioramento non può non passare per la legge elettorale che deve avere un turno di ballottaggio per la scelta del presidente del Consiglio. A ben vedere si tratta di una soluzione obbligatoria per la legge stante la giurisprudenza costituzionale, ma se si vuole costruire un clima di maggiore condivisione ben si può introdurre subito questa soluzione.
Che cosa risponderebbe a chi obietta che il premierato indebolirebbe il ruolo del presidente della Repubblica e potrebbe innescare una deriva autoritaria?
Il presidente la Repubblica non perde un potere in senso stretto ma la capacità di gestire e condizionare il processo di scelta del presidente del Consiglio che oggi è incentrato sul Parlamento. Ogni volta che una maggioranza di governo è solida, il presidente del Consiglio è già noto a tutti prima ancora della sua nomina. Così è successo nel 2022 con l’avvio del Governo Meloni. Quello che sembra un potere è in realtà un intervento del presidente nelle crisi (le estenuanti consultazioni per il governo Conte I): con l’elezione del premier si elimina alla radice il rischio dell’incapacità della politica di trovare un nome. Non si riduce un potere del capo dello Stato, ma si sposta la decisione dai partiti ai cittadini. Non c’è da preoccuparsi se si espande la sfera della sovranità popolare in un sistema di garanzie e limiti come quelli previsti dalla nostra Costituzione.
Lo storico Jaroslav Pelikan parlava della tradizione come «fede vivente dei morti», contrapponendola alla sua degenerazione, il tradizionalismo, definito la «fede morta dei vivi». Ricalca, se vogliamo, la contrapposizione tra un sano spirito di difesa della Costituzione, aperto al cambiamento, e l’intransigenza dei suoi più puri “guardiani”. Che ne pensa?
Le Costituzioni pretendono di essere eterne fissando il sistema di regole e valori ma al tempo stesso sono costrette al cambiamento. Non vanno difese solamente dai tentativi di stravolgimento (e non è il caso del premierato) ma anche da chi ne impedisce l’aggiornamento utile a renderle capaci di condizionare la realtà ossia di trasformare i valori, i principi e i diritti in regole legislative. C’è un pezzo d’Italia che vede nella conservazione dell’assetto attuale una garanzia di rendita politica, professionale e istituzionale. Perché per loro il rischio vero è che se si innalza la qualità della politica attraverso un vero controllo da parte dei cittadini si dovrà alzare anche il livello medio di tutta la classe dirigente del Paese. Capisco la paura di chi vive oggi di rendita pascolando nelle zone grigie dovute al mal funzionamento del sistema.
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