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Il fuoco dentro

MIGLIAIA DI VOLONTARI, CENTINAIA DI ORE DI FATICA, MILLE VOLTI E MILLE VOCI: ECCO COSA è IL MEETING, LA PROVVIDENZA CHE ARRIVA CON LA FACCIA DI QUALCUNO. IN ANTEPRIMA DAL LIBRO DI EMMA NERI “IL MEETING, LA STORIA E I TESTIMONI”

Emma Neri
22/07/2004 - 0:00
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Chi sono? Come arrivano al Meeting? Perché vengono? Tutte domande da mille punti, quelle che riguardano i volontari al Meeting. Di facile c’è solo il numero: 2400 durante la settimana, edizione 2003. Al numero vanno aggiunti quelli che fanno il pre-Meeting, 850 circa, in prevalenza universitari. Qualcuno si è preso la briga di fare due conti. Sottostimando a 10 euro un’ora lavorativa, si ottiene la bella cifra di 2 miliardi di vecchie lire per la settimana. Il valore economico dei 3.800 turni di 7 ore di lavoro gratuito del pre-Meeting si attesta sui 250mila euro (circa 500 milioni di vecchie lire). Insomma, è un lavoro vero, un valore reale, ha un peso anche economico, quello che fanno. è dunque facile dire che, senza i volontari, il Meeting non si farebbe. E qui nasce il paradosso, che spesso è difficile comunicare a parole. Bisogna guardare, per credere. Perché non è solo un problema di soldi. La gente che lavora è il cuore del Meeting. Ecco la descrizione che ne ha fatto, durante un suo bellissimo intervento del 2001, “Tutta la vita chiede l’eternità” (uno che li guarda tutti i giorni, i volontari che poi sono studenti, imprenditori, padri di famiglia), Giancarlo Cesana. «Domenica mattina, quando abbiamo cominciato e fervevano i preparativi, ero seduto lì sulla scalinata in attesa di un’intervista alla televisione e sulle scalinate erano seduti i ragazzi della militanza, tutti con la maglietta blu. Nello spazio davanti alla scalinata c’era una ragazza che con grande decisione e accuratezza lavava il pavimento. Guardandola mi sono detto: “Eccolo, il Meeting!”. Mi domandavo: che cosa vuol dire che tutta la vita chiede l’eternità per questa ragazza di vent’anni che ha scelto di venire qui a servire, nel modo più umile? Cosa vuol dire per tutti quelli che vengono qui e che invece appaiono sul palco? Che cosa è che fa impegnare così le persone? Perché deve essere una domanda ben forte quella che sostiene la voglia di apparire come sostiene il desiderio di servire».
è così fin dal principio, da subito. I primi hanno temperamento da avventurieri. «Venivano da soli» racconta il direttore, «si arrangiavano a cercare da dormire e mangiare. Nella mia parrocchia stavano con i sacchi a pelo in uno scantinato. Noi favorivamo il rapporto con gli alberghi, poi ognuno di loro si arrangiava». Sono belle storie, quelle che raccontano il rapporto tra i riminesi e gli altri. Qualcuna s’è tramandata fino ai giovani responsabili di oggi. Gianlorenzo Minarini, che segue la militanza, qualcosa ha visto, di quei tempi. «Qualcuno andava in giro a cercare gli appartamenti sfitti e li chiedeva in prestito per loro. Casa mia, quella dove abito tuttora, era una delle basi per i volontari. Era sfitta e i miei genitori la prestavano per la settimana del Meeting. Io facevo l’università e mi ricordo. Si andava porta a porta, tanti dicevano di sì. Poi c’erano quelli che abitavano dalla gente del movimento. L’anno dopo, la famiglia si accordava direttamente col suo ospite, restava un rapporto d’amicizia». Sono ancora relativamente pochi, si contano a decine. «Arrivavano soprattutto dalla Lombardia e dal Sud, storie appassionanti o drammatiche: viaggi tremendi in treno, anche due giorni. Ma qui stavano bene». All’epoca, la responsabile è Lella Zanotti: conosce tutti, uno per uno. «Passava al Meeting molto tempo, parlava con loro al telefono per ore, poi li incontrava tutti», ricorda Gianlo. Ma anche oggi, con altri metodi di “reclutamento”, altre tecnologie, «a me capita di non veder l’ora di guardare uno negli occhi, dopo che l’ho sentito quattro o cinque volte e so tante cose di lui». Allora era sempre emergenza: quanto fosse utile conoscere tutti di persona lo testimonia Franco Casalboni detto Caco. Ha curato per anni gli allestimenti e ha al suo attivo un tragico smontaggio, quello dell’82, fatto praticamente da solo. Due mesi di lavoro obbligato, da obiettore. La cosa strana è che l’anno dopo l’ha rifatto, da volontario. «Una volta il Meeting aveva già aperto ma non eravamo riusciti a smontare la falegnameria collocata in quella che doveva diventare la Sala 1. La gente che nei giorni precedenti aveva lavorato con noi era andata via. Ero disperato, non sapevo che fare. La Lella mi ha visto in crisi e dopo dieci minuti mi arriva un sacramento alto 1 e 90, con uno stuolo di ragazzoni altrettanto attrezzati. Era un prete del Trentino, con una banda di giovinastri che la Lella aveva mandato a darci una mano. In quattro ore abbiamo sbaraccato tutto. Nella vita la provvidenza arriva così: con la faccia di qualcuno».
Nei primi anni Novanta il sistema non regge più, racconta Ricci. «Il Meeting era diventato enorme, come struttura allestitiva, programma, gente che veniva». Lui ricorda il ’94, anno di passaggio, brutto: «La gente era distrutta, l’allestimento lo faceva quasi solo Rimini oltre a qualche ravennate e cesenate. Era troppo, un mese di lavoro a tempo pieno per tanta gente». Dal ’95 si cambia, radicalmente. Il Movimento si assume la responsabilità, anche educativa, del gesto e lo propone a tutti, quasi un “campo di lavoro”. Il Meeting chiede e la gente arriva, gli amici degli amici degli amici. «Fu un sollievo enorme», ricorda Ricci, «non solo dal punto di vista della fatica. Qualcuno addirittura cominciò ad andare in vacanza l’estate. Soprattutto cambiò il clima. Arrivava gente allegra, che non era stanca morta ma aveva voglia di costruire. Un passaggio anche difficile, per chi era abituato a lavorare in altro modo». Anche Bertazzi si considera un volontario, dal 1981. «Nessuno mi ha mai chiesto di venire a Rimini» dice. «Non sono mai stato mandato da Cl. Ero tornato dagli Stati Uniti, stavo riallacciando i rapporti, sono capitato qua e mi è piaciuto». In quegli anni, ricorda, il movimento era un po’ sfilacciato, le caritative, che una volta si facevano in Calabria, non c’erano più. Il volontariato, quella che malamente chiamate militanza – ma anche volontariato è riduttivo –, è stata l’occasione per un sacco di gente di ritrovare qualcosa di semplice su cui impegnarsi. Era facile: uno faceva l’elettricista anche se era ingegnere o il muratore anche se era insegnante. Un fenomeno che ha fatto crescere nel Meeting l’esperienza del movimento e il Meeting come esperienza di movimento. Per tanti amici miei, di Milano, che erano già qui quando ho iniziato, è stata la riscoperta della bellezza di dare tempo, gratuitamente, per l’opera di un altro».
Oggi, su 2mila volontari, la metà sono universitari, 300 i ragazzi sotto i 18 anni. Gli altri sono adulti, dai 30 anni in su. «Poi ci sono gli storici, gente che porta in giro la coccarda dei Meeting che ha fatto, non solo riminesi». Pirozzi ne cita alcuni, e pazienza per quelli che dimentica. Idealmente, ci sono anche loro. «C’era chi vegetava in fiera, ci stavano mesi: Luciano Paci, Gianni Todescato, Paolo Rinaldi, Piero Baffoni, Stefano Bezzi». Aggiungiamo almeno Domenica Ciacci, che da anni vende numeri esagerati di biglietti della Lotteria che serve all’autofinanziamento, e al Meeting ci vive, estate e inverno. Ma anche i nuovi contano: ogni anno, sono più della metà. E come gli evangelici operai della vigna, alzano la mano: io, io, anch’io. «Alcuni staccano per un po’» dice Gianlo, «perché lavorano, si sposano o fanno un figlio. Poi, cambiate le circostanze, tornano. E qualcuno fa anche carriera, da semplice volontario a capo settore, perché ci tiene a prendersi le sue responsabilità». Un popolo vero, dai mille volti e dalle tante storie. Cesana usa un’immagine bellissima per descriverli: hanno dentro il fuoco, grazie a cui l’acqua bolle. «Il Meeting appare – anche sui giornali, soprattutto con la grande attenzione che ci viene prestata quest’anno – come un pentolone che bolle, perché affronta tutto, le svariate tematiche che sono di qualche interesse per l’uomo. Se c’è un pentolone che bolle, vuol dire che sotto c’è acceso un fuoco: la domanda che costituisce il titolo del Meeting è il fuoco acceso sotto. Se si può non crederlo per noi, che siamo i responsabili e possiamo sembrare capi e intellettuali come gli altri, non si può negare che questo fuoco sia il fattore che sostiene il Meeting per i ragazzi che vengono qui a fare i volontari – non solo ragazzi per la verità, ma anche imprenditori, professionisti – pagandosi la settimana».
Perché la generosità non basta, non tiene la capacità: ci vuole altro. «La gratuità non dipende dal lavoro che fai» dice Gianlo. E alla domanda “chi non è adatto al Meeting”, risponde ridendo: «Prendiamo tutti». I più bravi? La risposta è sorprendente: «Quelli che vengono prima, perché la fabbrica o l’azienda chiude e poi, durante il Meeting, tornano al loro lavoro. Piccoli imprenditori della Brianza, ad esempio. Loro sì, mi stupiscono», dice. «Perché lavorare per il Meeting è anche gratificante. Ma è impressionante vedere chi viene a lavorare prima e va via quando comincia, senza nemmeno vedere il frutto del proprio lavoro». L’anno stupefacente è il 2000: gli universitari fanno il Giubileo dei giovani a Roma, la settimana prima, ma il Meeting ne risente pochissimo. «Sono arrivati tutti, qualcuno con due giorni di ritardo, ma sono venuti. Distrutti dalla stanchezza, sono passati dalla giornata col Papa a Tor Vergata al Meeting senza soluzione di continuità, senza nemmeno passare da casa».
Al Meeting si lavora davvero, non per finta: turni di otto ore o più, dove rispondi a qualcuno e, a volte, impari anche qualcosa. Per alcuni, ad esempio gli studenti di architettura che preparano le mostre e, dato uno spazio e un soggetto, le mettono in piedi dall’inizio alla fine, è un’occasione preziosa. Lo è anche per gli studenti di lettere o comunicazione che lavorano per il Quotidiano Meeting, un giornale vero, tutto fatto in casa, sotto la guida generosa e sapiente dell’inviato Stefano Filippi. Lavorano e si pagano tutto: vitto, alloggio e divisa, quando è richiesta, per alcune funzioni particolari, come le hostess. Magari poco, ma pagano. E trovano anche il tempo di divertirsi. «Utilizzano quello che Rimini offre», conferma Gianlo. «Meno le discoteche, magari, ma locali, birrerie, sì. Quando c’era il Meeting al mare, in piazzale Boscovich, la sera era sempre festa». E capita anche che qualcuno al Meeting si incontri, si piaccia e si sposi. Folklore ciellino? Non proprio, anche perchè il 10% almeno dei volontari non è di Cl. Il fatto è che al Meeting è vita vera: la simpatia, l’amicizia, l’amore, entrano a pieno titolo nel gioco delle cose. Le statistiche (rigorosamente interne) raccontano di due ruoli che storicamente favoriscono un’intesa: hostess e autisti. Insieme, affrontano lunghi viaggi per andare a prendere l’ospite di turno. è il caso di Federica e Stefano, arrivati al Meeting da studenti, lei toscana, lui milanese. Oggi felicemente sposati con due bambini. «Amore a prima vista», giura lui. «Anzi, un avvenimento. Quando penso al Meeting penso anche alla nostra vita». Prima c’era stata Cristina di Desio, cardiologa. Il marito Ezio è imprenditore a Varese. «Lui ha sempre continuato a lavorare al Meeting, io ho interrotto due anni, quando sono nati i figli, ma voglio tornare. Lo ricordo con gratitudine, mi ha cambiato la vita». Un successo così evidente che la sorella la segue. Rossella fa il dottorato in astrofisica, Davide è consulente agrario: sono fidanzati e fanno la spola tra Riccione e Milano. I maligni dicono che le sorelle Cerutti per trovare un marito devono andare al Meeting.
Incontri, storie, volti presenti alla memoria. «Più che le persone in particolare», dice Gianlo, «mi ha sempre colpito la valanga di ringraziamenti che arrivano dopo, via mail. Tutti ringraziano per l’esperienza fatta. è evidente che il Meeting li aiuta a vivere, nel senso che è utile come metodo, ti insegna a rispondere a qualcuno e a dare il tuo tempo per qualcosa, ti spinge a chiederti il perché di quello che fai. Insomma, è educativo. è anche la mia esperienza, il motivo per cui ci lavoro. Giancarlo lo dice sempre alla militanza, prima che il Meeting inizi: venendo qui, uno è aiutato a chiedersi la ragione delle cose». Conferma Casalboni l’ingegnere: «Il Meeting serve anche dopo, sui cantieri. Io ho imparato che quando hai a che fare col fattore umano due più due a volte fa cinque. Ogni persona, proprio come me, ha il problema di trovare un ambiente dove si sente amato». Accolti, ringraziano per aver lavorato, e anche per aver pagato. Ringraziano gli amici per la possibilità che è stata loro data. E ringraziano il Meeting, come fosse una persona, un soggetto. Perché esiste.

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