Il cinema racconta la grande crisi, tra broker spietati e ingiustizie colossali

Di Paola D'Antuono
07 Novembre 2012
Uno studio pubblicato dall'Istituto Bruno Leoni dimostra quanto Hollywood esageri nel dipingere la situazione delle imprese costrette a chiudere. Come se la colpa fosse del cattivo di turno, della sfortuna o di un tradimento.

L’economia del fallimento nei film dopo la grande crisi è il titolo di uno studio dell’Istituto Bruno Leoni, a firma della dott.ssa Rosamaria Bitetti. Scopo dello studio è quello di dimostrare che il fallimento di un’impresa, che per gli economisti è la naturale conseguenza di una legge di mercato in cui sopravvivono solo le imprese efficienti, assume un aspetto molto diverso quando viene raccontata sul grande schermo. Generalmente sul grande schermo il fallimento di un’impresa viene attribuito a cause standard: l’errore di una persona – il classico cattivo che da solo innesca una reazione a catena nell’azienda che porta alla sua chiusura – la sfortuna, l’ingiustizia, il tradimento e la frode.

240 FILM. I film presi in considerazione sono 240 e coprono due periodi storici: il primo che va dal 2004 al 2007, il lasso di tempo precedente alla recessione, e il secondo dal 2008 al 2011, in piena grande crisi. Non sono stati presi in considerazione documentari ma solo fiction, perché sono i film che raggiungono il maggior numero di pubblico e veicolano maggiormente l’apprendimento degli spettatori.

RATATOUILLE E TRA LE NUVOLE. Uno dei film analizzati del periodo 2004-2007 è il film Pixar Ratatouille, la storia di uno chef topo con un talento straordinario per la cucina. Quando viene scoperto il segreto del ristorante, che con un topo in cucina viola le norme igienico-sanitarie, gli affari cominciano ad andare male fino a sfociare nella chiusura. La fine del ristorante però non viene percepita in maniera drammatica o ingiusta, ma solo come una naturale conseguenza delle leggi economiche. Diverso il discorso per il film di Jason Reitman, Tra le nuvole, prodotto nel 2009 in piena crisi mondiale, che rappresenta uno dei rari casi in cui la fiction legge realisticamente l’economia. George Clooney è un tagliatore di teste chiamato dalle aziende che non hanno le competenze – e forse nemmeno il coraggio – per licenziare i loro dipendenti in seguito alla crisi. Per i lavoratori costretti ad abbandonare il lavoro c’è sincera empatia e anche lo sporco lavoro del “licenziatore” è percepito come necessario e non come l’attività di una persona cattiva.

TUTTI CATTIVI. Una narrazione realistica quindi, a differenza per esempio di Wall Street – Il denaro non dorme mai. Nel film del 2010 di Oliver Stone, Gordon Gekko è uscito di prigione e trova ad aspettarlo il futuro genero Jacke, rampante broker votato al business dell’energia pulita. In questa pellicola, dall’atteggiamento chiaramente anti-banche e anti-business, tutte le persone che hanno a che fare con l’economia sono cattive, avide, vendicative. Ma perché il cinema popola di mostri il mercato economico? Probabilmente perché, come spiega l’autrice dello studio, l’industria cinematografica è ad altissimo rischio di fallimento e proietta sullo schermo la sua più grande paura, quella di dover essere costretta a chiudere i battenti.

@paoladant

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