Il canonico ribelle del Risorgimento

Di Luigi Amicone
08 Giugno 2017
Storia del patriota barbaricino che «per amor di verità» cominciò col farsi prete e finì fra i massoni a battersi per l’Italia unita. Contro la colonizzazione sabauda e contro chi voleva solo «rubare a Dio»

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Una smentita alla malignità secondo cui in Italia non c’è più religione e pure il laico Orlando sarebbe emigrato sulla luna di Giove – e chissà come mai quella luna ghiacciata gli astrofisici l’hanno chiamata “Europa” – ce l’ho per tabulas. E pensate un po’, ce l’ho da un insegnante di provincia, Nuoro, che il novello Regno d’Italia ottocentesco aveva abolita ritenendola insulsa e selvatica. Ce l’ho dall’autore di un capolavoro storiografico, pensate un po’, che è stato presentato al Salone del libro di Torino. Ovvero proprio nella capitale di quel Regno di Sardegna che teneva in condizione di penoso asservimento l’isola che designava il suo stesso trono regale e sembra che dovesse il suo antico nome “Sandalion” alla leggenda dell’impronta lasciata sulla roccia da uno Zeus scavezzacollo: calzati i sandali, come usano fare i bambini sgambettanti tra roccette e bagnasciuga, anche Zeus, per una volta, si sarebbe divertito a pestare l’acqua coi piedi e, nel caso, considerate le dimensioni del pupo, a lasciarne considerevole e indelebile traccia nel
Mediterraneo.

Fatto sta che tale Giuseppe Puligheddu, questo il nome del professore ciellino autore del capolavoro a cui hanno collaborato studenti non ciellini (o non solo ciellini) del liceo classico del capoluogo barbaricino, ha pubblicato un notevole contributo a una rilettura del Risorgimento come vicenda umana e ideale grande, viva e attuale. Si intitola Giorgio Asproni. Nel nome della Rivoluzione. Un protagonista sardo nel Risorgimento italiano, Poliedro edizioni, Nuoro, 2017. Una biografica entusiasmante. Perché oltre ai crismi della scientificità, ricchezza e varietà di fonti, mostra la forza di un punto di vista non ossificato nella retorica. Geniale nel cogliere, collegare e collocare al centro delle vicende biografiche del protagonista, uno dei giganti della (fallita) unità d’Italia, i fatti e le persone di un movimento di rinascita nazionale, piuttosto che i suoi stereotipi rimasticati e sedimentati, tanto nella retorica liberale e social-comunista, quanto in quella di matrice borbonica e catto-reazionaria.

copa-asproniCavour il «conte insaziabile»
Al centro del racconto si trova appunto il “canonico ribelle” Giorgio Asproni (1808-1876), nato a Gorofai, frazione di Bitti, cuore della Barbagia, che «per amor di verità» (e perciò «di patria»), cominciò con l’educazione e l’istruzione che all’epoca non potevano significare altro che “farsi prete”. E finì col diventare attivista repubblicano, giornalista, politico e parlamentare. Naturalmente ai tempi in cui il suffragio universale era di là da venire (primo paese a introdurlo fu, nel 1893, la stravagante Nuova Zelanda, ma già nel 1755 la piccola Corsica di Pasquale Paoli anticipò il resto del mondo nel concedere il voto a frazioni di popolo femminile); allorché si votava per censo, le donne erano escluse, occorreva versare 40 centesimi (una cifra importante all’epoca) per accedere in cabina elettorale; e quando solo gli aristocratici e i borghesi potevano permettersi il lusso della politica (infatti, recitava l’articolo 50 dello Statuto albertino che dettava le regole del parlamento sabaudo, «le funzioni di Senatore e di Deputato non danno luogo ad alcuna retribuzione o indennità»). Dunque, il nostro prete barbaricino sedette prima nel parlamento del Regno di Sardegna, per ben sei legislature su sette, beneficiando di una rendita regia che, a partire dalla terza legislatura, gli consentì di rinunciare alla sua condizione e stipendio di chierico. Eletto negli anni 1848-1860 nei collegi di Nuoro, Genova e Lanusei. Quindi, tra il 1865 e fino a che morte lo colse, a Roma, 1876, con Garibaldi venuto a rendergli onore al capezzale, fu deputato del Regno d’Italia. Eletto nel collegio di Nuoro per quattro legislature.

Gratificato in morte dal “lutto nazionale” che parlamento e governo avevano in precedenza proclamato solo per Cavour e Rattazzi, seppellito con tutti gli onori di Stato al cimitero del Verano, Asproni fu alla confluenza di tre grandi fiumi. Giuseppe Garibaldi, braccio armato e pedina dei Savoia. Giuseppe Mazzini, l’integrista e rivoluzionario repubblicano. Carlo Cattaneo, il patriota e intellettuale cattolico sostenitore dell’unità d’Italia in chiave federalista. I fattori di queste amicizie si colgono bene nel Diario che Asproni tenne da parlamentare e militante nella sinistra costituzionale. Gesta garibaldine a parte, li accomunava l’opposizione a Cavour, «conte scaltro e impratichissimo del mondo, senza scrupoli, senza freno morale, disinvolto e cortese nei suoi modi, avido e insaziabile di potere e pecunia» (Asproni, Diario politico, 1855-1876). Una certa indipendenza di giudizio rispetto anche ai partiti di appartenenza. Un sincero fervore repubblicano insieme alla critica, da sponda autonomista e in difesa delle identità regionali, dell’interpretazione piemontese dell’unità d’Italia in chiave egemonica, filofrancese e colonialista.

La profezia di san Giovanni Bosco
Il più colossale errore del canonico bittese, che infine dovette aderire alla massoneria (lato Grande Oriente), fu quello di farsi incastrare dal guardasigilli Rattazzi nell’elaborazione in Commissione del Regio Decreto n. 878, ratificato il 29 maggio 1855 da re Vittorio Emanuele II, che sancì la soppressione degli ordini religiosi contemplativi e l’incameramento dei loro beni. Decreto per il quale in una sua personale missiva al re, san Giovanni Bosco profetizzò «non un grande funerale a Corte, ma grandi funerali a Corte». E in un opuscolo sequestrato dalla polizia, la persuasione che «la famiglia di chi ruba a Dio non giunge alla quarta generazione». In effetti, nel breve volgere di poche settimane dal giorno in cui venne presentata la legge, morirono la madre, la moglie, il fratello e l’ultimogenito del re. E casa Savoia, che ebbe solo tre re d’Italia, non giunse alla quarta generazione di sovrani.
Nel suo aspro e veemente anticlericalismo, Asproni ebbe grande ammirazione per il laico, cattolico e federalista lombardo Carlo Cattaneo. Stima per altro ricambiata, al punto che dopo la morte del parlamentare bittese, Cattaneo si rammaricò per non aver seguito il suo consiglio di candidarsi in Sardegna per dare una lezione al personale politico locale del quale Asproni conosceva bene l’orgoglio indipendentista (in teoria) e l’usanza (pratica) di vendersi al miglior offerente.

D’altra parte, il “canonico ribelle” comprese benissimo le ragioni della scomunica e del non expedit pronunciati da Pio IX nei riguardi di una politica e di una generazione di politici “risorgimentali” che, al riparo dell’ideologia unitaria, miravano alla pura e semplice rapina della “roba” della Chiesa e alla sottomissione del popolo alla élite sabauda. Tant’è che lo stesso Asproni ebbe un ruolo nel fermare un complotto che puntava ad assassinare il Papa. E adesso dicano i posteri sardi se è vero, come scrisse il Mazzini su L’unità italiana del 4 giugno 1861, che «l’Italia che sta facendosi, e che, fatta appena, terrà la Sardegna come una delle più splendide gemme del suo diadema».

@LuigiAmicone

Foto Ansa

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