Il buco nero di TikTok

Di Annalisa Teggi
09 Marzo 2023
Si potrà dare un limite al tempo speso sull'app da parte dei minorenni. Ma ridurre il tempo a "durata" è la coda più velenosa dell'uso istintivo dei social

Com’è umano lei, direbbe Fantozzi. È questa l’impressione che TikTok vuole dare, quella di una cura dal volto molto paterno e orientata al benessere dei suoi utenti. È notizia recente che il social made in China più popolare al mondo abbia deciso di porre un limite al tempo speso sull’app da parte degli utenti minorenni. Prossimamente comparirà una notifica in cui gli under 18 verranno informati che per il loro benessere potranno scrollare e visionare contenuti solo per un’ora al giorno.

Ma TikTok non è umano, men che meno è paterno o materno. Tant’è che in risposta alla premurosa notifica si potrà ovviare al limite temporale selezionando un’opzione diversa.

La faccenda è tanto evidente quanto il naso lungo di Pinocchio. Si moltiplicano i contributi che documentano i pericoli e i danni da esposizione prolungata alla cascata infinita di video di durata molto breve. È molto facile dedurre un forte interesse da parte di TikTok a escogitare una strategia o patteggiamento che garantisca la permanenza proprio dei più giovani (che sono lo zoccolo durissimo degli utenti) sul social dei balletti e delle challenge.

Ergo, lasciateceli

C’è un evidente ammiccamento ai genitori, perché l’opzione del “ti lascio il tablet/cellulare ma solo per un’ora” è quella su cui come padri e madri ricadiamo più facilmente per rimediare alla voragine virtuale che fagocita i figli. Il messaggio implicito di TikTok sembra essere quello di dirci che non dobbiamo neppure più preoccuparci di pronunciare quella frase. Tranquilli, cari mamma e papà, i vostri figli sono al sicuro sulla nostra piattaforma perché diciamo loro le stesse cose che dite voi. Ergo, abbiamo cura di loro. Ergo, lasciateceli.

E lasciarli, fosse anche solo per 60 minuti al giorno, su TikTok cosa significa? Il limite temporale, inteso come mera durata, è solo un paravento e non è neppure detto che ripari. Se lascio un bimbo davanti alla cassetta aperta dei medicinali, basta meno di un minuto per un disastro. In 60 minuti di video scrollati, anche in modo non continuativo, ci si può imbattere in tonnellate di schifo.

Istanti appaganti

Ma voler ridurre il tempo a durata è proprio la coda più velenosa di un uso istintivo dei social. Ci si passa sopra delle ore che trascorrono come intrattenimento, non come esperienza. TikTok ha un algoritmo potentissimo nella capacità di creare engagement. Forse sarebbe più onesto dire encagement, prendendo atto che è proprio una trappola (cage) quella forza di attrazione prodotta dalla visione di brevi video a ripetizione, cuciti ad hoc sui desideri dell’utente. Alcuni esperti parlano di una dipendenza simile a quella delle sostanze stupefacenti, per rimanere in un campo semantico più vicino all’esperienza comune pensiamo al gusto di pescare patatine da un sacchetto, quelle che – appunto – «una tira l’altra».

C’è una ripetizione compulsiva di istanti appaganti. Tante piccole esperienze gratificanti a raffica. Con la differenza che nel mangiare le patatine è ancora implicata la mossa fisica di masticare, mentre davanti allo schermo l’assunzione di contenuti comporta una passività, anzi una crescente remissività.

L’amaro in bocca

Oltre all’incognita di contenuti inadatti, c’è una contropartita ben più seria in un’abbuffata di TikTok, anche solo di un’ora. Si ritorna frustrati al reale, lì dove non accade quell’esperienza di momenti di gratificazione a grappolo.

L’impressione pulviscolare di uno spazio virtuale in cui le voci si accavallano, parlano-proprio-a-te, offrono squisitezze è opposta al mondo incarnato in cui la sfida più bella e impegnativa è costruire le relazioni, vivere esperienze molto più lente in cui la gratificazione non è immediata. E dove parte della fatica buona è proprio capire il valore di gesti che non implicano un gusto saporito istantaneo, e non è escluso che lascino l’amaro in bocca.

In 60 minuti

La realtà non è strutturata da un algoritmo che sforna contenuti calibrati sul nostro indice di gradimento, sempre più eccitanti, divertenti, sorprendenti. Il mistero della realtà non manca di sorprese straordinarie, ma ci sbatte addosso eventi che bruciano, fanno male, disgustano. Ci pianta dentro quella lentezza anche estenuante che pare non approdare mai a un momento di svolta. Ed è solo in questa cornice incarnata che il tempo è davvero prezioso, proprio perché non è durata, ma presenza.

C’è chi ci ha messo molto meno di 60 minuti a innamorarsi, ci sono incanti nell’ordine di grandezza dei minuti che parlano la lingua dell’eterno. C’è chi ci mette anni a trovare un punto d’incontro con un padre o un fratello, ci sono casi in cui la gratitudine e la gratificazione sono procrastinate a tempo indeterminato. Il tempo reale ha un peso quasi gravitazionale.

Tempo ridotto a intrattenimento

Invece, tutti viviamo quella strana sensazione che il tempo sui social non esista, si dissolve e finisce fagocitato in un buco nero. Insinua il dubbio che tutto fluisca verso una dimenticanza insapore. A volte a una madre scappa di detto: «Spegni quei video, li hai guardati per un’eternità». Dovremmo ricordarci che è vero il contrario. Un tempo ridotto a intrattenimento compulsivo smorza ogni scintilla di desiderio di eternità.

Ragion per cui un discorso serio sulle potenzialità virtuose dei social non parte di sicuro da una gestione del tempo da spenderci sopra, perché questo tipo di mossa svela semmai un interesse opposto al benessere. È la mossa tattica di chi vuole patteggiare sulla durata pur di tenere comunque al guinzaglio il più appetibile degli utenti, quello giovanissimo. È per profilarti meglio, scappò di detto al lupo.

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