
Il blocco di intellettuali, politici e sindacati che ha provato a smantellare la legge Biagi. Di cui, però, c’è ancora bisogno
Dieci anni fa, il 24 ottobre 2003, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto legislativo n. 276 del 10 settembre, entrava in vigore la legge Biagi. La legge si era ispirata al disegno riformatore del Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia, redatto da un gruppo di lavoro coordinato da Maurizio Sacconi e Marco Biagi, il giuslavorista assassinato l’anno prima da un commando delle Brigate Rosse. A ricordare il clima «ideologico», «avvelenato» e «mistificatorio» con cui allora sia il Libro Bianco sia il testo di legge vennero accolti da un’ampia fetta della società civile e al tempo stesso la indiscutibile attualità dello «spirito» di quella legge è Michele Tiraboschi, allievo di Marco Biagi, oggi docente di diritto del lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia, dove dirige anche il centro studi dedicato al suo maestro.
A dieci anni di distanza in quali condizioni versa il mercato del lavoro italiano?
Se avessimo fatto questa riflessione nel 2007, a quattro anni dall’entrata in vigore della legge, avremmo potuto constatare la creazione di quasi 3 milioni di nuovi posti di lavoro, un tasso di disoccupazione giovanile al 20 e non al 40 per cento, come invece è oggi, e un progressivo incremento dell’occupazione femminile. Tutto ciò grazie alla modernizzazione delle tipologie contrattuali introdotte dalla legge Biagi. Sto pensando in particolare al lavoro a chiamata, ai buoni lavoro, i voucher con cui regolarizzare molti lavoretti domestici come per esempio i servizi alla persona; penso anche ai contratti di inserimento per i giovani e i gruppi più svantaggiati e alla innovativa riforma dell’apprendistato.
Da allora cosa è cambiato?
Purtroppo, la controriforma di Prodi del 2007 e, da ultimo, la riforma Fornero hanno fatto fare marcia indietro all’Italia rispetto a quanto di buono si era riuscito ad ottenere. Certo, la crisi economica ha influito in negativo erodendo il tasso di occupazione, ma, come riconoscono da più parti osservatori provenienti anche dal mondo delle imprese e da quello dei sindacati, le progressive restrizioni operate dai successivi disposti normativi rispetto all’impianto originale della Legge Biagi hanno inciso anch’esse, contribuendo ad aggravare la disoccupazione.
La legge Biagi è rimasta inapplicata, senza poter esprimere al meglio la sua portata innovativa?
Diciamo che il 60 per cento dell’impianto complessivo della legge non ha saputo trovare attuazione. Per esempio, non è stata introdotta la Borsa continua nazionale del lavoro, uno strumento assai utile che avrebbe consentito di avvicinare domanda e offerta di lavoro in un mercato, quello italiano, dove non sempre le due componenti si incontrano così facilmente. Anche perché è un mercato ancora troppo opaco e poco trasparente.
In un suo recente editoriale per il centro studi Adapt ha scritto che la piena attuazione della legge Biagi è stata ostacolata da un «blocco sociale e intellettuale di opposizione» che ha condannato il Paese a un «doloroso declino di cui ora registriamo le conseguenze in termini di impoverimento della nostra economia e di drastico peggioramento di tutti gli indicatori occupazionali». A chi si riferisce?
Mi riferisco a quella parte del blocco sindacale e a quegli intellettuali conservatori che avevano attaccato, ancor prima di entrare nel merito, i contenuti del Libro Bianco sul lavoro e poi la legge. Una legge che – non dimentichiamolo – l’indomani della sua entrata in vigore dovette fin da subito fare i conti con tentativi di abrogazione. E c’era addirittura chi tentava di negare che quella legge l’avesse scritta Marco Biagi; posso testimoniare che così non è stato. Mi riferisco poi anche alla quasi totalità di quei giuslavoristi che oggi nei convegni celebrano Biagi ma che allora si opposero fermamente alla legge. Quando, in realtà, la maggioranza dei sindacati e degli operatori già in quegli anni aveva cominciato ad apprezzarne la bontà, lo spirito riformista e sussidiario.
Che cosa non piacque di quella legge?
Si è detto che avrebbe condotto il mercato del lavoro verso la “precarizzazione” dei lavoratori, partendo dalla convinzione, mai dimostrata, che l’unico contratto buono di lavoro fosse quello a tempo indeterminato, mentre tutto il resto è “precariato”. Non è vero. Il nucleo fondamentale della legge è basato su un principio molto semplice: un lavoro regolare è molto meglio di nessun lavoro, della disoccupazione, dell’inattività o del lavoro nero. Per questo motivo, il dettato normativo della legge Biagi mirò a valorizzare tutta una serie di forme contrattuali inclusive e non “precarizzanti” e lo fece in un momento in cui quasi un quarto del mercato del lavoro italiano era sommerso, due milioni di giovani erano senza lavoro e solo un italiano su due era inserito nel circuito del lavoro regolare.
Il «blocco di opposizione» cosa fece?
Contro questo impianto si è combattuta una battaglia ideologica il cui esito finale è stata la legge Fornero, che limita il contratto a progetto, l’associazione in partecipazione, il contratto a termine, quello a chiamata, i buoni lavoro, abroga l’inserimento e restringe la possibilità di ricorrere ai tirocini formativi. Con l’effetto che anche quelle poche occasioni di creare lavoro in un momento negativo come l’attuale vengono impedite. Dimenticando che, in realtà, anche la creazione di posti di lavoro temporanei, nel tempo, contribuisce ad aumentare il livello dell’occupazione di qualità e dei posti di lavoro stabili.
La legge Biagi è ancora attuale?
Alcune delle sue singole disposizioni ormai sono datate e possono essere riviste e modificate. Ma lo spirito di quella legge rimane validissimo. Serve creare norme leggere, non invasive, che aiutino le imprese a crescere e ad assumere. Anche perché, vale la pena ricordarlo, l’attuale paradigma del mercato del lavoro non piace a nessuno, né alle imprese né ai lavoratori.
Di cosa ha bisogno il mercato del lavoro italiano?
Bisogna riscoprire una logica più sussidiaria e al tempo stesso partecipativa delle relazioni di lavoro, restituendo protagonismo agli attori sociali, alla contrattazione collettiva e agli enti bilaterali. Bisogna ritornare a investire sulle risorse umane e sulla formazione, valorizzando il nuovo contratto di apprendistato. E percorrere tutte le strade e le nuove possibilità offerte dal lavoro subordinato, conciliando maggiore autonomia con la tutela della dignità del lavoro, l’equo compenso e tutti i diritti che è sempre giusto garantire.
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