Le forme d’arte come pittura e scultura, oggi considerate “maggiori”, e quelle che vanno sotto il nome di design si scambiano reciprocamente suggestioni capaci di captare lo spirito del tempo fin dall’alto Medio Evo. È allora che inizia a sfumare la separazione tra arti liberali e arti meccaniche, ed è quella la cultura che per prima mette sullo stesso piano la bottega dello scultore con quella dello scalpellino e quella del pittore con quella del miniaturista o dell’amanuense. Le arti maggiori e quelle applicate si integrano, senza soluzione di continuità. E non di rado il lavoro e la ricerca degli antenati dei moderni designer svolgono la funzione di palestra per idee e intuizioni da cui poi pittura e scultura attingono a piene mani. Alla recente evoluzione di questa sinergia tra diverse espressioni artistiche è dedicata l’esposizione “Il Modo Italiano. Design e avanguardie artistiche in Italia nel XX secolo”, concepita e ideata dal Museum of Fine Arts di Montreal in collaborazione con il Royal Ontario Museum di Toronto e il Mart di Trento e Rovereto (dove resterà esposta fino al 3 giugno).
La mostra è focalizzata sull’Italia del Ventesimo secolo, un paese caratterizzato dal progressivo mutare della società da rurale in industrializzata, dove il rapporto rinascimentale tra principe committente e artista realizzatore viene sostituito da quello tra imprenditore illuminato e progettista, architetto o artista designer. In quest’ottica si scopre tra arte e design una sorprendente “contaminazione” vicendevole che influenza tutti gli aspetti di vita quotidiana del popolo. Apripista di questa compenetrazione fu, alla fine dell’Ottocento, l’Art Nouveau (in Italia Stile floreale). Il movimento, infatti, permeò tutte le nuove forme d’arte in maniera omogenea: dal mobilio alla pubblicità, dall’architettura all’abbigliamento. Rembrandt Bugatti, Giulio Aristide Sartorio, Alessandro Mazzucotelli e Adolfo Wildt sono solo alcuni dei grandi protagonisti di questa fin de siécle. Una funzione altrettanto rivoluzionaria e dirompente ebbe successivamente il movimento di Filippo Tommaso Marinetti, che si propose, con l’omonimo manifesto del 1915, una “Ricostruzione futurista dell’universo”. Pionieristici sono stati i mobili, gli oggetti e l’abbigliamento di Giacomo Balla, così come le pubblicità per prodotti di consumo e lavori di ebanisteria di Fortunato Depero.
Il periodo tra le due guerre, invece, in Italia fu ovviamente tutto improntato al Ventennio fascista e alla suo “ritorno all’ordine”, nell’estetica come nella vita. Dal punto di vista artistico, tale tensione trovò corrispondenza negli ideali del gruppo Novecento, fondato da Oppi, Sironi, Carrà e Campigli, tra gli altri, e patrocinato da Margherita Sarfatti. La loro visione, semplice ed essenziale, era strettamente correlata all’architettura classica milanese di Muzio, Ponti, Portaluppi e Terragni. “Il Modo Italiano”, significativamente, documenta questo contesto attraverso le realizzazioni di design di Piacentini (Sedia per l’ingresso della casa di Fiammetta Sarfatti a Roma, 1933) e Albini (Mobile di servizio con tavolini estraibili per la sala da pranzo di casa Ferrarin, 1931), chiare e semplici, secondo il gusto del tempo. Una certa inquietudine traspare, al contrario, dagli oggetti ispirati alla visione metafisica e destabilizzatrice di De Chirico, a cui aderirono anche Carrà, Casorati, Martini, Morandi e Savinio. L’eterno dilemma della scelta tra classicismo e modernismo si pose a lungo durante il regime fascista e si risolse nella coesistenza di entrambi, come dimostrano le realizzazioni di Bruno Munari e Carlo Scarpa (Vaso corroso, 1936) esposte a Trento.
Il Dopoguerra, l’età dell’oro
Nel Dopoguerra, con la ripresa economica si assistette a un vero e proprio periodo d’oro delle arti e del design italiano, in strettissima correlazione tra loro. Il piacere della forma si esprime attraverso nuovi materiali e soluzioni formali che cambiano i prodotti industriali: dai divani di Artflex, Tecno e Rima, all’illuminazione rinnovata da Arteluce, Flos, O-Luce e Artemide. In quegli anni la Triennale di Milano giocò un ruolo determinante nella suggestione reciproca tra arte e design. Lucio Fontana, il decano dello spazialismo con i suoi Concetti spaziali fatti di buchi, tagli o sculture al neon, ha in questo contesto un ruolo fondamentale per intuizioni, sperimentazioni e scoperte oggi non ancora completamente assimilate nella loro portata rivoluzionaria. A Fontana si affiancarono Burri, il poeta della materia, e Piero Manzoni, primo artista italiano che, con i suoi achrome, adoperò un procedimento concettuale puro. Questa corrente ebbe un’influenza profonda sul design e la produzione dei suoi esponenti dimostra una sensibilità condivisa nel concepire forme e colori. Lo testimoniano oggetti come quelli progettati da Corradino D’Ascanio (Vespa 125, 1955), Marco Zanuso (Poltrona, 1951), Carlo Mollino (Tavolo “Arabesco”, 1950), Gio Ponti (Sedia “Superleggera”, 1955) e Achille Castiglioni (Lampada a sospensione “Taraxacum”, 1960).
L’arte e il design, dunque, iniziano a guardarsi reciprocamente sempre più spesso. I tardi anni Sessanta che consacrano sulla scena internazionale l’arte povera di Kounellis, Pistoletto, Merz e Paolini trovano il loro corrispettivo nelle forme essenziali proposte da Dario Bartolini (Lampada da terra “Sanremo”, 1967), Enzo Mari e Vico Magistretti (Poltrona “Vicario”, 1970). Non è mai una ripresa acritica di forme – chi cercherà la “copia” delle opere d’arte negli oggetti di design resterà deluso – ma piuttosto una vicinanza di vedute nel leggere la sensibilità dei contemporanei.
Arriva la transavanguardia
L’ultimo scorcio degli anni Settanta, che assiste all’affermarsi della transavanguardia di Chia, Clemente, Cucchi e Paladino e a un certo recupero della tradizione novecentista, trova il corrispettivo artistico nei coloratissimi oggetti di Ettore Sottsass (Vaso “Mizar”, 1982) e Michele De Lucchi (Tavolino “Kristall”, 1981). Ancora negli anni Ottanta, periodo fervido di creatività, edonistica e opulenta, l’arte è caratterizzata da questa sensibilità. Oggi, con la celebrazione della civiltà dell’immagine su scala mondiale s’impongono invece artisti come Vanessa Beecroft accanto a designer come Andrea Branzi (Lampada “Foglia”, 1988), Giovanni Levanti e Fabio Novembre (Tavolo “Org”, 2001).
È una mostra inedita e tutta da vedere, “Il Modo Italiano”. E che quella di studiare la compenetrazione tra arti maggiori e arti applicate non sia un’idea balzana lo certificano addirittura i maggiori musei americani. Che, a partire dal Moma di New York, sono tutti allestiti secondo questa linea di non separazione tra pittura, scultura e design, fotografia e cinema da decenni. Oltreoceano forse il modo italiano è più apprezzato di quanto non si immagini.