Se non fosse che la strana coppia contribuisce a quella pubblica confusione che offende l’intelligenza prima ancora che i principi basilari di una moderna democrazia liberale, non varrebbe molto la pena di perdere tempo a chiosare le incontinenze di Scalfari&Scalfaro. Ma tant’è, siccome filosofo calabro e fraticello piemontese, si stanno tenendo degnamente bordone nel dichiarare la loro pubblica riprovazione per l’attentato al monopolio statale dell’istruzione pubblica compiuto da Chiesa e “laici sedicenti”, bisognerà capire bene perché la parità scolastica minaccerebbe “i nostri soldi” e “la sacra laicità dello Stato”. Ora, è pur vero che né l’uno si accorse mai che il suo ex datore di lavoro ed editore di Repubblica fu imprenditore illuminato alle spalle dello Stato (prima con le commesse Olivetti che ancora oggi ammuffiscono nelle cantine degli uffici statali di ogni ordine e grado, poi con la graziosa concessione governativa del secondo polo della telefonia cellulare), né l’altro ha sfidato invano chiunque a provare che i soldi delle campagne elettorali prima, e del Sisde poi, siano stati usati per fini non istituzionali, giacché pende oggi sul suo capo un preciso atto d’accusa parlamentare molto circostanziato. Ma con quale autorità l’uno (lo Scalfari da cento miliardi di buonuscita) crede di poter segnare il discrimine tra “laici e sedicenti tali”; l’altro (da ex presidente di singolare faziosità) dichiarare da buon dio maggiore che “non accetto facilmente delle scene di contaminazione che, sulla piazza di san Pietro, sono capitate qualche settimana fa”? Come mai questi brillanti farisei si sforzano di fraintendere così grossolanamente i termini di tutto il dibattito sulla scuola e volentieri sono portati a considerare i 200mila di Roma come una talebana minaccia alla laicità dello Stato? Per quale strano riflesso (mafioso?) gli Scalfari, Scalfaro & consimili che ci governano, considerano lo Stato come “cosa loro”, come fine invece che come mezzo della società? La risposta sta nei poteri, politici e giudiziari, a cui Scalfaro si è consegnato nel suo settennato di Presidente partigiano, che sono poi i medesimi poteri referenti del quotidiano di proprietà di quel De Benedetti che nella sua ultima agio-biografia disse: D’Alema non dimentichi che senza la Repubblica e L’Espresso la sinistra non sarebbe oggi al governo. È dunque allo scopo di mantenere la loro privata zecca e continuare a battere la loro falsa moneta, che Scalfari&Scalfaro accettano di buon grado di continuare a recitare la parte vaniloquente e retorica di uno statalismo che ha perso il pelo ma non il vizio degli affari alle spalle del popolo. Tant’è che un manager di un’azienda parastatale può tranquillamente dire – come ha detto Franco Tatò nei giorni della privatizzazione Enel – “Mi siedo su di una miniera d’oro”, senza che nessun Scalfari&Scalfaro si adontasse per il retrogusto da prima repubblica di questa frase. Si può stare dalla parte del governo, ma non è ridicolo che una stampa che si dice laica non sia nemmeno capace di fingere una critica seria a un governo di nanerottoli che, come ha scritto Alessandro Penati sul Corriere della Sera, “non solo combatte con poca convinzione e risultati risibili le piccole posizioni di rendita, ma si fa addirittura promotore dei grandi monopoli”? Che bel mondo di vecchi arnesi è questa Italia dalemiana di antichi soloni, guardiani della Cgil, magistrati fanatici e preti imboscati che hanno sposato i poveri per incassare trenta danari statali, adulazioni sui giornali, pubblicità ai Costanzo show! Sono come contadini ubriachi, comunque li si metta in sella da una parte, ricadono giù dall’altra. Non si può aiutarli, si può solo. TEMPI
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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