I sacrifici di Keane, la corsa di McGeady, i calci di Cox: non chiamiamo l’Irlanda “squadra simpatia”

Dietro a Pletikosa c’è un muro verde. Ha sofferto tutta la partita, mandando giù i tre bocconi amari che la Croazia di Bilic ha rifilato alla sua Irlanda. Per i Boys in green l’esordio europeo non può essere peggiore, eppure al triplice fischio finale su quelle gradinate non si legge tristezza o rabbia, ma imperterriti si continua a cantare in festa. “The fields of Athenry” è una delle musiche più popolari in Irlanda, e non è nuova alle orecchie di chi segue il rugby: anche nel calcio è un must delle tribune gaeliche, che con quelle note riaffermano orgogliosamente la loro origine e identità.

Anche ieri a Poznan i tifosi irlandesi sono tornati a riaffermare tutto il loro amore per quella terra e per tutto ciò che la rappresenta. L’Irlanda è tornata a giocare un match agli Europei dopo 24 anni d’assenza: l’ultima volta che accedeva al tabellone di questo trofeo era il 1988, con un gruppo che, facendo leva su grandi nomi e su un tecnico di enorme prestigio quale Jack Charlton, dava il via ad un bel periodo di successi e buoni risultati. Poi la Green Army aveva perso freschezza, e solo da un paio d’anni è tornata a quei livelli, sotto la guida del Trap. Si capisce quindi perché dalle parti di Dublino si guardava con grande attesa all’inizio di questa competizione: significava poter tornare tra le grandi del calcio, dopo che l’ultimo tentativo, quello per accedere ai Mondiali del 2010, era stato ingiustamente vanificato dalla mano di Henry, in quello spareggio di qualificazione che tutti ricordano.

Ma l’esordio di ieri è stato tutt’altro che gioioso. La squadra di Trapattoni ha pagato il grande gap qualitativo con la Croazia, decisamente più veloce e più forte: troppo gagliardo in mezzo al campo Luka Modric, troppo straripante là davanti Mandzukic con le sue incornate, a coronare il bel palleggio messo in mostra da tutto il pacchetto offensivo croato. Tuttavia, bisogna riconoscere che l’Irlanda il suo l’ha fatto: subito sotto dopo soli 3 minuti, non s’è lasciata prendere dalla disperazione, ma ha continuamente provato a spingere. Al diavolo la cosiddetta regola delle piccole del calcio, ossia “primo, non prenderle”. Keane e compagni sono stati spavaldi, e sfruttando la velocità e precisione delle fasce, sono riusciti a trovare pure il gol del pari. E anche quando la roccambolesca rete del 3-1 doveva giustamente averli mandati al tappeto, non c’era un giocatore che tirasse indietro la gamba, o che smettesse di dare fondo al poco di fiato rimasto nei polmoni: Keane scendeva fino al centrocampo per farsi dare qualche pallone, Duff dava tutto ciò che aveva, Keith Andrews si rendeva sempre pericoloso e Cox era un mastino là in mezzo.

Cosa si può rimproverare a questa squadra? Poco. Non che l’Irlanda abbia giocato un match privo di errori, ma tutto sommato di fronte alla superiorità così netta della squadra di Bilic c’era ben poco da fare. E quel coro così impetuoso a fine partita ha spiazzato tutti: per la squadra che usciva nessuna recriminazione, nessun rimprovero, ma solo applausi. E una canzone, a riaffermare una volta di più ciò che neanche una sconfitta può portare via: quello che loro sono, la loro identità. Ad ascoltare le tv, l’Irlanda è già stata scelta come squadra simpatia, un umile e gentile materasso cui tutti presteranno simpatici sorrisi, convinti di avere la meglio su di loro con la stessa facilità con cui si beve un bicchiere d’acqua. Ma dopo aver visto la partita di ieri, non ne sarei così convinto. Specie se dietro a quella squadra c’è un pubblico così orgoglioso.
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