Mentre sgrana come un rosario il racconto dei mille pugni presi in pancia dalla vita, dei buchi nel braccio per le siringhe di eroina prima e di medicinale poi, delle litanie del «io sono un senzafuturo», mentre cerca le parole chissà dove, Claudio si sorprende quasi come un Lazzaro moderno: «La mia è la storia di un risorto». Claudio Zanzi ha 42 anni. Ex eroinomane, spacciatore, ladruncolo, carcerato, oggi si porta nelle vene la sieropositività di una vita da cane perduto senza legami. Conseguenza non logica di tutto ciò: una felicità feroce per la sua vita e per quella dei suoi ragazzi, gente «che sbava quando parla, si sporca quando mangia, scrive senza saper scrivere, sa amare solo gratuitamente».
Bocciato a scuola, a quattordici anni inizia a racimolare qualche lira faticando in un calzaturificio. «Un ragazzo come tanti. Poi la compagnia sbagliata, le prime canne, i primi tiri di eroina il sabato e la domenica». Nessuna pietà né indulgenza verso se stesso: «Non ho iniziato perché sentivo il mondo ingiusto. Non ho scuse. Mi drogavo solo per sentirmi normale, per essere sfacciato con le ragazze, per girare con gente in automobile e non sempre a bordo di un rumoroso Benelli tre marce». Nel giro di un anno inizia a bucarsi con continuità («l’eroina costa meno e fa più effetto con la siringa»). La giornata scandita da un rito monotono: sveglia, buco. Colazione, lavoro, buco. Pausa pranzo, lavoro, buco. Cena, scuola serale a Ragioneria e poi a cercare qualche spacciatore. Ha quindici anni. «Mi piaceva. Ma in poco tempo infilarsi un ago in vena diventa una necessità, più mentale che fisica». Di corporale ci sono i dolori alla schiena, alle ossa che rimbombano, alla testa per le notti insonni, come elettrizzato da pensieri sempre in astinenza. «Nel 1980 spendevo per l’eroina 300 mila lire ogni due giorni. Tra finanziamenti e prestiti bancari avevo accumulato 90 milioni di debiti. Spacciai anche un po’, qualche furtarello finché mi arrestarono e finii in carcere». A smettere ci aveva anche pensato. «Magari per due giorni durava. Non ho mai avuto un’educazione cattolica però ogni tanto tentavo di dire qualche Padre nostro. “Aiutami Tu”, lo supplicavo». Così la preghiera la sera, la mattina dopo di nuovo a cercar soldi, a tormentare le vene, a scappare dai creditori.
«TRA UN ANNO MUORI»
Nel 1984, a 21 anni, scopre di essere sieropositivo. «Che me ne frega? Tanto io sono già morto». Allora l’Aids era solo una sigla: sulla vita dei sieropositivi, sulla dannata condanna che ti pende sulla testa, poco si sapeva. «Sentivo dire che l’aspettativa di vita era dieci anni, vedevo qualche amico morire, ma su tutto vinceva la paura di rimanere senza droga, senza lacci, senza buchi». I medici che lo seguivano lo riempiono di farmaci nel tentativo di recargli sollievo: «Claudio, questi medicinali sono pesanti. Se non smetti ti fanno più male che bene. Scegli». E Claudio scelse il veleno.
«I miei mi misero la valigia fuori di casa. Mi portarono in una comunità di recupero a Rimini. Tempo un mese ed ero scappato. Tornato a casa, mi ci riportarono trascinandomi per le orecchie. Questa volta rimasi due anni». Due anni ad imparare a controllarsi, a essere responsabile anche di piccole cose, a razionalizzare pasti e sigarette. Due anni per imparare tutto daccapo, come un bambino. Poi di nuovo a casa, pulito e infelice. «Giravo in bicicletta per aziende cercando un’occupazione. I colloqui andavano bene finché non dicevo che ero un ex tossico. Lì, allora, la porta si chiudeva. Così decisi di non parlare più della mia vita passata. Al primo tentativo mi assunsero come operaio, orari d’inferno con turni di notte ma uno stipendio da favola, 2 milioni e mezzo al mese più straordinari e tredicesime varie». Quanto erano piene le tasche, tanto era vuota la giornata. «Lavoro lavoro lavoro. Amici zero, rapporti umani nessuno, massimo livello raggiunto nelle discussioni: qualche battutaccia sulle colleghe». E in più il segugio dell’ossessione che ti pedina, la paura di tagliarsi, di infettare e infettarsi, le difese immunitarie a zero, ogni raffreddore una peste. «Ho ripreso a bucarmi, spinto da un’infelicità profonda». I medici gli danno pastiglie da obesi, trasudanti anfetamine per recuperarlo, ma senza esiti: «Claudio, se non smetti, tra un anno muori».
Una dottoressa, che a questo ammazzasette di uno si era affezionata, gli indicò una cooperativa dove si fanno lavorare ragazzi portatori di handicap. «Ci sono anche ex carcerati e tossici, prova ad andare là». Claudio si mette in malattia e bussa, «ma solo per farla contenta». Il primo pensiero di Claudio sintetizza bene il suo iniziale stato d’animo: «Uno schifo. Gente che sbavava, che s’intendeva a versi, spesso preda di crisi epilettiche». Però Claudio non è che sta meglio: drogato, sieropositivo, solo. Dove andare? «Ho pensato: “sto qui un po’ e poi me ne vado”». Tanto che cosa cambia? Si sentiva come uno coi giorni contati.
L’ERRORE DI UN SALUTO
Adesso, che son passati un po’ di anni da quel momento, Claudio ricorda ancora «i dieci giorni seguenti e tutti i saluti dei ragazzi che non appena entravo mi chiedevano: “ciao Claudio, come stai?” Era la prima volta che qualcuno si interessava a me». Claudio dice che ha smesso di drogarsi «senza accorgersene», per merito di quei ragazzi lì che quando parlano ti annaffiano, che si muovono trascinandosi, che per essere felici gli bastano quattro matite colorate. «Mi diedero la responsabilità di un gruppo di quindici di loro. Se non davo loro da brigare si arrabbiavano. Ti chiedono tutto oltre al lavoro, di esserci senza cercare vie di scampo, senza la scusa dei tuoi e loro limiti». Era importante che «ci fossi proprio io, impegnato ad assemblare componenti elettrici». L’amicizia nasce attorcigliando il filo rosso al filo blu e poi agganciandoli al morsetto. «Pensavo: ho tanti soldi e sono infelice. Ho l’automobile e sono un disperato. Questa gente, quando nevica e fa freddo arriva al lavoro puntuale. Dov’è l’errore?». L’errore più bello era tornare a casa la sera «felice», soddisfatto dell’oggi, ansioso del domani.
A dirigere la cooperativa c’è Lorenzo Crosta, «che per me è come un padre. Non mi ha mai compatito, mi ha sempre trattato da uomo, mi invitava a casa sua a mangiare e mi trattava come il direttore della Banca. Io però lo misuravo in altezza e larghezza: che tornaconto ha a stare con me? Dov’è la fregatura?». Piano piano l’affetto dei disabili si fece più forte della disabilità cui conduce sospetto. E Claudio chiese a Lorenzo di assumerlo. «Di là guadagnavo 2 milioni e mezzo, di qua seicentomila lire. Lorenzo mi fece penare, dovetti chiederglielo più e più volte di assumermi. Mi metteva alla prova, mi sfidava, voleva vedere se facevo sul serio, voleva vedere se ero pronto a dare tutto». Claudio era pronto. Tornò dal primo datore di lavoro e presentò le dimissioni. Quello, in un periodo di licenziamenti, gli propose un aumento di stipendio. Claudio retrocedeva accampando scuse. Quello insisteva e aggiungeva offerte. «Senta – disse Claudio estraendo dalla tasca un certificato medico che attestava la sua sieropositività – io sono questo». Dieci milioni di buonuscita e la raccomandazione «di non parlare a nessuno di questa storia». Claudio si innamora di Graziella, un’altra “figlioccia” di Lorenzo che dirige la cooperativa. «Avevo avuto qualche sbandata per altre ragazze, ma mi bloccavo subito. Che speranze c’erano per un senzafuturo come me?». Ma poi – con la complicità di Lorenzo – la faccenda va a buon fine, Graziella dice “sì” al fidanzamento, Claudio dice “ok” a Lorenzo che lo ammonisce: «Se fai il pirla te li taglio».
IL MATRIMONIO DI COSE RIMEDIATE
L’opera di Lorenzo Crosta non finisce sulla porta dell’officina. Continua anche a casa. Lorenzo ha aperto delle “case famiglia”, luoghi dove oltre a una coppia vivono ragazzi che durante il giorno lavorano nella cooperativa. Un’idea da folli e da santi. Claudio e Graziella la volevano anche per sé questa santa pazzia. «Così nel 1999 quando Lorenzo aprì una casa a Bresso ci disse: “Perché non ci andate a vivere voi?”. Non avevamo, letteralmente, una lira. In due mesi Lorenzo ci organizzò il matrimonio facendosi regalare qualcosa da uno e qualcosa da un altro». Questo matrimonio di cose rimediate «fu una grande festa, gioiosa e spensierata come tutti i ragazzi della cooperativa che vi parteciparono».
A Bresso, in un edificio «di cui niente è mio e che ci è stato dato in comodato», vivono due famiglie e dieci ragazzi dai 16 ai 59 anni. «Per me è tutto un lusso. Io, un rovinato, che oggi ha una famiglia, che torna a casa a cena e ha qualcuno con cui ridere e piangere». Graziella fa da mamma a questo gruppo di sordomuti, rachitici, down, autistici, insufficienti mentali. Per Claudio la sua vita «è una bellezza», e di questi ragazzi a cui vuole così bene da saperli anche prendere in giro («ce n’è uno che scrive tutto il santo giorno pur essendo analfabeta, un altro parla solo un dialetto che non esiste») dice solo che «sono come me. Hanno bisogno della stessa cosa di cui ho bisogno io: di tutto». è questo amore incondizionato che oggi gli fa dire: «Sono resuscitato grazie ad una passione gratuita».